CUORE

SINTESI

Che cosa sono le vene e capillari?
La comparsa di vene e dei capillari, a livello degli arti inferiori, può essere segnale di patologie venose; esse colpiscono gli uomini ma colpiscono soprattutto donne per cause di tipo ormonale (terapia ormonale sostitutiva ad esempio in menopausa) o conseguenti alla gravidanza (gli ormoni della gravidanza provocano una diminuzione del tono vascolare; inoltre l’aumento della pressione addominale da parte dell’utero gravido comporta un alterato deflusso venoso).

I sintomi e i segni delle vene e capillari
I sintomi che i pazienti lamentano in caso di insufficienza venosa sono generalmente pesantezza, gonfiore delle caviglie, formicolio, prurito, crampi notturni, fino al dolore e possono tradursi in inestetismi come piccoli capillari sino allo sviluppo di iperpigmentazione della pelle e vene varicose. Queste ultime possono in seguito complicarsi in flebiti e trombosi.

TRATTAMENTI

Trattamento medico delle vene e capillari
Il chirurgo vascolare effettua una visita preliminare per valutare la necessità o meno di approfondimento mediante un eco-color Doppler (esame non invasivo e per nulla doloroso) con il quale si possono escludere patologie importanti e stabilire se è sufficiente una terapia medica (elastocompressiva e /o farmacologica – flavonoidi) oltre alla correzione di eventuali abitudini sbagliate (sedentarietà, lavoro prolungato in posizione eretta, caldo eccessivo, stipsi, sovrappeso) o, invece, se è necessario, oltre alla correzione delle abitudini, intervenire anche chirurgicamente.

Trattamento chirurgico delle vene
Per risolvere le patologie delle varici vengono effettuati interventi chirurgici tradizionali quali la safenectomia (stripping), la legatura delle varici (flebectomie) e l’intervento di termo ablazione della safena con il LASER, a discrezione dello specialista che valuta il paziente.

Trattamento post chirurgico e dermatologico delle venuzze e capillari
Una volta risolta la patologia varicosa è possibile intervenire sull’aspetto estetico delle gambe curando “venuzze” e capillari con la scleroterapia o laserterapia a seconda delle caratteristiche del vaso da trattare. Tutto ciò non è ovviamente risolvibile in un’unica seduta ma verrà stabilito, sempre dallo specialista, a seconda della quantità di vasi di trattare.

SINTESI

L’angina pectoris (dal latino: angoscia) è un dolore che si manifesta al petto e nelle aree circostanti – braccia, collo, schiena e anche mandibola – in seguito a un debito di ossigeno che riguarda il cuore.
Tipicamente il sintomo si manifesta sotto sforzo, perché l’ostruzione parziale del vaso limita l’afflusso di sangue e conseguentemente determina un debito di ossigeno che causa la comparsa del sintomo.

Il meccanismo che determina l’ostruzione delle coronarie, arterie del cuore, è l’aterosclerosi che è dovuta a depositi intravascolari di grassi (colesterolo e trigliceridi). In relazione all’entità della placca si avrà un restringimento del vaso che diventa significativo quando è superiore al 70% e quindi impedisce il normale fluire del sangue che provoca la cosiddetta ischemia al muscolo cardiaco.

L’angina pectoris può, appunto, essere uno dei sintomi dell’ischemia ma può dipendere anche da un cattivo funzionamento delle valvole cardiache o da aritmie o ancora da anemia, cioè dalla presenza di poca emoglobina o globuli rossi nel sangue.

L’angina pectoris può inoltre mostrarsi sotto forma di affaticamento o difficoltà a respirare e di irrigidimento a braccia, gomiti e polsi, soprattutto del lato sinistro del corpo. Può verificarsi a riposo o alla fine di uno sforzo fisico. Il dolore dell’angina si differenzia da quello provocato dall’infarto perché quest’ultimo è più intenso, dura di più e non se ne va con l’assunzione di farmaci o quando ci si riposa.

DIAGNOSI

Sono molti gli esami che consentono di verificare il buono o cattivo funzionamento del cuore e che permettono di risalire alle cause dell’angina pectoris. Quello più diffuso è l’elettrocardiogramma, attraverso cui viene registrato e verificato il ritmo cardiaco e la presenza di anomalie della ripolarizzazione indicative di ischemia. In realtà la presenza di ischemia deve essere verificata con l’elettrocardiogramma sotto sforzo che prevede l’esecuzione dell’elettrocardiogramma in continuo mentre viene eseguito un esercizio su una pedana in cui il paziente viene invitato a camminare o correre o su una cyclette.

Un altro esame che viene utilizzato per verificare il funzionamento del cuore è l’ecocardiogramma, grazie al quale il medico specialista può visualizzare il cuore del paziente su uno schermo.
Infine, gli stessi risultati possono essere ottenuti grazie all’utilizzo della scansione nucleare (scintigrafia), che prevede la fotografia del cuore attraverso uno speciale apparecchio che, con l’utilizzo di un liquido di contrasto, mette in evidenza le parti del cuore meno ossigenate.

L’esame cardine è però la coronarografia che prevede, previa anestesia locale, l’inserimento di un sottile catetere che viene condotto dall’arteria dell’inguine o del braccio fino al cuore e quindi, in seguito all’iniezione di mezzo di contrasto intracoronarico, grazie a immagini a raggi X è in grado di evidenziare la presenza di stenosi che ostruiscono le coronarie.

TRATTAMENTI

Il dolore provocato dall’angina pectoris può essere prevenuto o sedato attraverso l’uso di farmaci, che però non sono in grado di intervenire sulla malattia che ne può essere la causa. Nei casi in cui siano presenti danni coronarici occorre ricorrere a procedure come l’angioplastica coronarica o l’innesto di bypass aorto-coronarico.

SINTESI

L’arteriopatia periferica si sviluppa quando le arterie si ostruiscono e non sono più in grado di portare con normale regolarità tutto il nutrimento di cui avrebbe bisogno il nostro corpo. Questo “intasamento” è spesso causato da un indurimento e da un restringimento delle arterie, che non si presentano più lisce ma ostruite da una placca la quale non consente il corretto flusso di sangue e ossigeno: è un processo ben noto con il nome di arteriosclerosi.

La patologia, che spesso si verifica con l’avanzare dell’età, è più frequente nei soggetti diabetici o fumatori. Per questo occorre prevenirla con una dieta equilibrata, tenendo sotto controllo i livelli di zucchero nel sangue, riducendo il colesterolo, smettendo di fumare e praticando un regolare esercizio fisico.

DIAGNOSI

Di solito l’arteriopatia periferica si presenta sotto forma di un forte dolore a livello degli arti inferiori (polpaccio, coscia, natiche) che ha reso nota questa patologia come “sindrome delle vetrine”. È infatti tipico accusarne i sintomi mentre si passeggia, ritrovarsi quindi a zoppicare e infine decidere di fermarsi fingendo di guardare le vetrine circostanti per alleviarlo. Tuttavia questo sintomo viene spesso trascurato o minimizzato (si confonde con gli acciacchi dell’età) e non porta invece a considerare gli altri segnali attraverso cui si può verificare: il colore della cute del piede (pallido o cianotico) oppure la temperatura di un arto rispetto all’altro.

Per questo è importante rivolgersi con tempestività a un chirurgo vascolare e sottoporsi a esami specifici. In primo luogo si dovranno verificare l’aspetto, la temperatura, la pulsazione arteriosa e il flusso di sangue dell’arto colpito, senza poi escludere la presenza di eventuali lesioni. Per quanto riguarda gli esami strumentali è possibile sottoporsi a un indice caviglia-braccio (ABI) che consente invece di verificare il flusso e la pressione del sangue alla caviglia e al braccio. Per verificare la presenza di eventuali lesioni sarà infine necessario sottoporsi a un eco-doppler.

TRATTAMENTI

Il primo passo nel trattamento dell’arteriopatia periferica è l’abolizione dei fattori di rischio più diffusi (colesterolo, diabete, fumo) mentre nei casi più complessi è possibile avviare anche una cura con farmaci antiaggreganti o vasoattivi.
Nel caso in cui vi sia una forte occlusione delle arterie sarà tuttavia necessaria una rivascolarizzazione tramite intervento chirurgico: angioplastica, stent o (nei casi più gravi) bypass.

SINTESI

La cardiomiopatia dilatativa (miocardiopatia dilatativa) è una condizione che si verifica quando la cavità cardiaca si allarga in seguito a una perdita di forza di contrazione del muscolo cardiaco, riducendo così in maniera sensibile la capacità che ha il cuore di pompare il sangue. L’origine della dilatazione del ventricolo (di solito il sinistro) del cuore, è dovuta a cause molteplici: ischemiche (pregresso infarto o aterosclerosi), valvolari (generalmente insufficienza mitro-aortica), virali (ad esempio miocardite acuta), concomitant ad un’altra patologia cardiaca (ad esempio neuromuscolare o collagenopatia), dovute all’assunzione di farmaci (chemioterapici come doxorubicina ciclofosfamide) all’abuso di alcolici o droghe (cocaina).

DIAGNOSI

Di solito questa condizione è associata ai classici segni di scompenso cardiaco che si manifestano sotto forma di affaticamento in presenza di sforzo o a difficoltà respiratorie (dispnea) sia di giorno, sia di notte e in condizione di riposo. Altri disturbi più specifici da tenere sotto controllo per riconoscere i sintomi della cardiomiopatia dilatativa sono gli edemi declivi, le aritmie (sia lente – brachicardia, che veloci, tachicardia) e la cardiopatia ischemica.

A fronte di un quadro così variegato è bene sottoporsi a esami medici che valutino l’eventuale insorgenza della patologia con diversi gradi di approfondimento: si va dai test basilari (elettrocardiogramma) a verifiche più circostanziate come l’ecocardiogramma e il cateterismo cardiaco, che servono rispettivamente per valutare le dimensioni e la funzione del cuore e per escludere l’origine ischemica della cardiopatia.

TERAPIA

Le terapie per la cardiomiopatia dilatativa variano a seconda della gravità. Il primo passo da intraprendere è di certo la scelta di una dieta a basso contenuto di sale, successivamente si potranno considerare le terapie farmacologiche a base di vasodilatatori, diuretici, betabloccanti e talvolta anticoagulanti (per evitare le tromboembolie), mentre per quanto riguarda i casi più gravi il trattamento da intraprendere sarà l’impianto di pacemaker biventricolare antiscompenso associato o meno a defibrillatore. In casi di particolare gravità e fino all’età relativamente giovane, anche il trapianto di cuore.

SINTESI

L’occlusione (stenosi) delle arterie coronariche si sviluppa quando le arterie coronariche – cioè i vasi sanguigni che conducono al cuore il sangue, l’ossigeno e le sostanze per lui nutritizie – si danneggiano a causa di placche che si formano al loro interno a causa dell’accumularsi del colesterolo.

Queste placche restringono lo spazio in cui scorre il sangue riducendone la quantità che arriva al cuore. La diminuzione del flusso sanguigno causa un insufficiente nutrimento del muscolo cardiaco in condizioni di aumentata domanda (ad esempio uno sforzo fisico) causando il tipico dolore al petto (angina pectoris) che si verifica quando la richiesta di sangue da parte del miocardio (il tessuto muscolare del cuore) è superiore all’offerta data dai vasi coronarici stenotici. Questa situazione reversibile può peggiorarsi quando si ha una chiusura completa di una o più arterie coronariche, sfociando nell’attacco di cuore o infarto cardiaco (infarto miocardico).

L’occlusione coronarica si sviluppa spesso nel corso di decenni, per questo può passare inosservata fino al momento in cui sopravvengono sintomi tipici, come l’angina o la mancanza di fiato (la dispnea).
Per questo occorre prevenirla con stili di vita sani e un’alimentazione attenta e corretta.

DIAGNOSI

Si sospetta l’esistenza di una malattia coronarica quando in capo a una persona si presentano sintomi associati a fattori di rischio, soprattutto quando si è in presenza di una storia famigliare di malattia coronarica.
I fattori di rischio da tenere in considerazione sono vari e vanno dall’alto livello di colesterolo nel sangue alla presenza di diabete, dall’obesità al sesso maschile, dall’ipertensione arteriosa al fumo di sigarette.

L’occlusione delle arterie può essere scoperta attraverso l’esame non invasivo della prova da sforzo (test ergometrico), che viene effettuata al cicloergometro, con monitoraggio con elettrocardiogramma o ecocardiogramma. Nel caso in cui questo test risulti positivo o comunque non sia in grado di fornire una risposta certa, la verifica o la ricerca di ostruzioni coronariche viene effettuata attraverso la coronarografia, esame nel corso del quale un piccolo catetere viene inserito in un’arteria – partendo da un braccio o dall’inguine – e spinto fin verso il cuore.

Attraverso l’iniezione di un liquido di contrasto nelle arterie coronariche è possibile individuare le eventuali ostruzioni. La coronarografia consente di identificare con precisione le regioni coronariche coinvolte e il grado di stenosi presente.

TERAPIA

Quando la malattia coronarica viene accertata, ci sono numerose opzioni di trattamento, che includono la terapia medica, l’angioplastica e la chirurgia.

Il bypass coronarico rappresenta il più comune intervento di cardiochirurgia. La buona riuscita dell’intervento porta alla scomparsa del dolore al petto (angina), alla ripresa dell’attività fisica quotidiana e a un’aspettativa di vita migliorata. Un altro intervento è quello di angioplastica coronarica, che prevede la dilatazione di un piccolissimo palloncino nei punti in cui la coronaria presenta delle placche, dove in precedenza sono stati posizionati dei piccoli supporti metallici (stent).

Il bypass coronarico è una procedura chirurgica, l’angioplastica coronarica è una procedura di emodinamica (cardiologia interventista). I due interventi non sono alternativi tra loro, ma trovano applicazione a seconda della patologia coronarica su cui è necessario intervenire.

SINTESI

Per ipertensione si intende l’aumento della pressione del sangue, cioè dei valori della pressione arteriosa, minima e massima.

La pressione arteriosa è determinata dalla quantità di sangue che il cuore pompa nelle arterie e dalla resistenza al flusso che il sangue può incontrare nel suo percorso. L’aumento della pressione fa sì che il sangue prema contro le pareti delle arterie minacciandone la struttura.
Si può essere soggetti a ipertensione per interi anni senza avere sintomi. Meglio dunque controllare a intervalli regolari, soprattutto se si è persone anziane, la pressione, per cercare di evitare gravi danni alla salute, come quelli procurati da infarto e ictus.

L’ipertensione può essere causata da fattori genetici o fisiologici (per esempio l’età avanzata), da alterazioni patologiche, fattori ambientali (come stress, fumo, obesità) o da un eccessivo consumo di sale.
Nel 90-95% dei casi l’ipertensione è di origine primaria e viene definita “ipertensione essenziale”. Quando invece deriva dalla presenza di altre patologie – come ad esempio stenosi delle arterie renali, malattie dei reni o dei surreni, malattie della tiroide – assume la qualifica di “secondaria”.

DIAGNOSI

La misurazione della pressione viene abitualmente effettuata attraverso l’utilizzo dello sfigmomanometro, lo strumento che viene avvolto attorno al braccio e che è provvisto di una camera d’aria – che viene gonfiata dal medico con una piccola pompa di gomma collegata – e da un manometro su cui vengono indicati i valori minimi e massimi della pressione.

All’uso dello sfigmomanometro viene affiancato quello del fonendoscopio, con cui vengono ascoltati i rumori dell’arteria del braccio mentre viene effettuata la misurazione. Per ottenere una diagnosi di ipertensione è necessario misurare la pressione arteriosa per almeno tre volte nell’arco di un mese.

Utili a offrire una precisa diagnosi di ipertensione sono anche l’anamnesi clinica – che serve a raccogliere quante più informazioni relative allo stato di salute presente e passato del paziente – e l’esame obiettivo con la misurazione dei battiti del cuore, effettuata attraverso una leggera pressione esercitata a livello del polso.
Una volta verificata l’esistenza di ipertensione arteriosa è necessario escludere la presenza di rischi cardiovascolari per il paziente. Per questo vengono disposti esami delle urine e del sangue, oltre a elettrocardiogramma, ecocardiogramma-Doppler, radiografia del torace ed esame del fondo dell’occhio.

TRATTAMENTO

L’obiettivo del trattamento è quello di ridurre la pressione arteriosa. Questa può essere tenuta sotto controllo grazie a un corretto stile di vita, che preveda il rispetto di alcuni comportamenti quali non fumare, non bere alcolici, mantenere un peso corporeo adeguato, fare almeno 30 minuti di esercizio fisico al giorno, bere molta acqua.

Non sempre però questi accorgimenti sono sufficienti per tenere la pressione arteriosa nei livelli di non rischio. In tal caso i pazienti devono dunque sottoporsi a un percorso farmacologico per un periodo di tempo indeterminato.
I farmaci antiipertensivi rientrano per lo più nelle seguenti categorie: diuretici, ACE inibitori, antagonisti dell’angiotensina II, calcioantagonisti, beta bloccanti e alfalitici.

SINTESI

La Sindrome di Brugada è un’entità clinica descritta solo dal 1992. E’ una patologia geneticamente determinata e quindi trasmissibile. E’ legata a un’alterata funzionalità di una parte della membrana cellulare della cellula cardiaca detta “canale ionico” perché, per l’appunto, regola il passaggio dello ione sodio. Tale alterazione causa un’aumentata eccitabilità della cellula cardiaca determinando la possibilità d’insorgenza di aritmie anche letali. In genere il sospetto della presenza della Sindrome di Brugada avviene a seguito all’esecuzione di un elettrocardiogramma che mostra segni particolari: un ritardo di conduzione lungo la branca destra ed un sopraslivellamento del tratto ST in V1 – V2. A seconda della forma di questo sopraslivellamento sono state descritti tre “pattern” (morfologie) ECGrafiche: il tipo 1 offre una certezza della presenza di alterazioni, il tipo 2 e il tipo 3 sono sospetti. Il fatto di avere alterazioni ECGrafiche non vuole dire essere affetti dalla sindrome di Brugada, cioè di essere a rischio di aritmie gravi, ma deve spingere ad ulteriori accertamenti.
Una particolarità di questa Sindrome consiste nel fatto che – poiché il canale iodico del sodio ha una funzionalità diversa in base alla temperatura corporea – le alterazioni ECGrafiche sono più frequenti durante la febbre.

DIAGNOSI

Visita aritmologica con ECG, attenta raccolta dell’anamnesi (una storia di sincopi, una storia familiare di morte improvvisa identificano soggetti a rischio aumentato), indagini genetiche tese all’identificazione di soggetti portatori di anomalie del gene SCN5A (una positività a tale indagine è però presente solo in circa il 20% dei soggetti).

TRATTAMENTO

Nei soggetti ad elevato rischio l’unica terapia affidabile è l’impianto di un defibrillatore impiantabile (ICD); nei soggetti già portatori di ICD che ricevono numerosi interventi per aritmie, può essere tentata la somministrazione in cronico di chinidina.

SINTESI

La sindrome di Wolff – Parkinson – White (WPW) è una forma particolare di tachicardia sopraventricolare nella quale viene coinvolto – oltre al normale circuito di conduzione – anche un fascio di conduzione accessorio (una sorta di “filo elettrico in più”), presente sin dalla nascita. In genere si riscontra in persone che soffrono di episodi di tachicardia sin da bambini o addirittura neonati, perché questo fascio accessorio è presente sin dalla nascita.
A differenza della tachicardia da doppia via nodale, la presenza di questa sindrome può talora essere riconosciuta anche con un semplice ECG, perché determina dei segni ECGrafici specifici. Siccome questo “filo elettrico” accessorio è talora in grado di condurre impulsi elettrici ad alta velocità, in una percentuale di casi che è stata descritta sino allo 0.4% può esserci un rischio di mortalità. Per questo motivo, in presenza di un evidente sindrome di WPW all’ECG di superficie, è quasi sempre consigliabile eseguire uno studio elettrofisiologico che da informazioni precise sulle capacità conduttive del fascio accessorio.

DIAGNOSI

Visita aritmologica con ECG, ECG dinamico sec. Holter, looprecorder, test da sforzo al cicloergometro, studio elettrofisiologico.

TRATTAMENTI

Terapia farmacologica (in genere usata negli anziani), ablazione con radio frequenza o crioenergia.

SINTESI

Si è in presenza di patologia mitralica quando la valvola mitrale, cioè la valvola d’ingresso del sangue per la parte sinistra del cuore, presenta una stenosi (restringimento) o una insufficienza (perdita). Per capire quali siano le conseguenze delle due situazioni, occorre ricostruire il percorso effettuato dal sangue. Questo giunge al cuore attraverso il circolo polmonare dove il sangue si è arricchito di ossigeno, proprio attraverso la valvola mitrale che, quando è aperta, consente il flusso del sangue nella camera principale di pompaggio del cuore, il ventricolo sinistro. Richiudendosi, la valvola impedisce che il sangue torni ai polmoni quando il ventricolo si contrae per pompare il sangue nell’organismo.

L’intervento chirurgico può essere necessario quando la valvola mitralica si apre o si chiude in modo non corretto. Quando questa è troppo stretta (stenotica) non lascia entrare il sangue nel ventricolo, causando una congestione di sangue nel circolo polmonare. Per questo nei momenti in cui il soggetto compie azioni che richiedono sforzi di particolare intensità il cuore non riesce ad aumentare – come l’organismo richiederebbe – la quantità di sangue da pompare, sovraccaricando il circolo polmonare con il rischio di edema polmonare.

Se, al contrario, i lembi della valvola mitralica non si chiudono correttamente nel momento in cui il ventricolo pompa il sangue in periferia, si dice che la valvola perde (è insufficiente). In questo caso il sangue tende a tornare indietro, nei polmoni, ogni volta che c’è una contrazione del cuore, che per questo fatto è costretto a pompare più sangue per cercare di mantenere la giusta quantità da distribuire all’organismo. Il risultato è il cosiddetto “sovraccarico di volume” del cuore, che può essere portato avanti per mesi e anni senza avere sintomi, fino a quando l’insufficienza si sviluppa lentamente e progressivamente.

Le patologie che riguardano la valvola mitrale sono, per la maggior parte dei casi, causate dal logorio delle valvole che può essere generato con il trascorrere dell’età. Ma questa “malattia degenerativa” può riguardare persone giovani, anche a causa di febbri reumatiche o da infezioni o endocarditi batteriche, che colpiscono cioè il tessuto che riveste le cavità e le valvole del cuore. La valvola mitrale può inoltre essere danneggiata in seguito a patologie del ventricolo sinistro come conseguenza di infarto miocardico (mitrale ischemica) e, anche se in rari casi, può avere un’origine congenita, in seguito a un difetto, cioè, presente fin dalla nascita.

DIAGNOSI

Chi è affetto da stenosi (restringimento) della valvola mitralica, e quindi gode di una minore quantità di cuore pompato dal cuore nell’organismo, può soffrire vari sintomi, il primo del quale è la difficoltà di respirare correttamente (dispnea), a causa del sovraccarico di sangue nei polmoni. Un altro sintomo causato da questa patologia è l’insorgenza di aritmie, come la fibrillazione atriale, causate da dilatazione dell’atrio sinistro (la camera a monte del ventricolo sinistro).

Gli stessi sintomi – mancanza di respiro e debolezza (astenia) – sono mostrati nel caso in cui le valvola non si chiuda correttamente, quando il cuore non è più in grado di sostenere, aumentando la sua azione di pompaggio – la “perdita” di sangue e il suo ritorno da dove è arrivato, cioè nei polmoni. Se non si procede per tempo, a lungo andare il danneggiamento del cuore, in questo caso, può diventare irreversibile.
La diagnosi di patologia mitralica viene effettuata con l’ecocardiografia cardiaca.

TRATTAMENTI

Interventi chirurgici effettuati prima che la degenerazione della valvola abbia raggiunto livelli preoccupanti possono prevenire il danneggiamento irreversibile del cuore. In alcuni casi anche il trattamento farmacologico può alleviare notevolmente i sintomi, anche se solo per un certo tempo.

L’intervento chirurgico viene deciso quando si diagnostica un’insufficienza severa con l’ecocardiografia cardiaca. La sintomatologia del paziente deve essere presente anche se è necessario considerare, in presenza di sintomatologia non chiara o sfumata, le condizioni del ventricolo sinistro sottoposto a un iperlavoro con conseguente grave disfunzione che rischierebbe di diventare irreversibile.

Spesso la valvola è talmente danneggiata da richiedere la sua sostituzione. In altri casi può essere semplicemente riparata. La riparazione della valvola nativa è riservata principalmente a casi di insufficienza mitralica. La maggior parte delle riparazioni però viene eseguita quando si presenta il caso di una malattia degenerativa, che porta a una rottura o a un allungamento dei componenti della valvola. In questo caso si può procedere alla rimozione dei segmenti rotti e all’accorciamento di quelli allungati, piazzando corde sintetiche al posto di quelle rotte o allungate.

In caso di stenosi mitralica l’intervento effettuato più di frequente è la sostituzione valvolare mitralica (con bioprotesi o protesi meccanica). La plastica mitralica è riservata a taluni casi, visto che i lembi mitralici sono talmente danneggiati (ispessiti e rigidi) dalla patologia reumatica da rendere difficile e poco efficace la riparazione.

La sostituzione deve essere disposta quando le riparazioni non sono in grado di assicurare una guarigione. Questo succede quando a causa di una malattia reumatica la mitrale risulta tanto danneggiata da dover essere sostituita con una protesi valvolare artificiale. In linea generale, sono disponibili due tipi di valvole artificiali: le valvole meccaniche, composte da metallo e/o carbonio pirolitico e le valvole biologiche, fatte con tessuti animali.
Sia la riparazione, sia la sostituzione della valvola mitrale sono interventi che vengono eseguiti dal cardiochirurgo.

SINTESI

La tachicardia ventricolare – TV – è un’aritmia caratterizzata da un’improvvisa accelerazione del battito cardiaco (tachicardia: cuore veloce) che origina dai ventricoli. Si definisce monomorfa se tutti i battiti hanno la stessa morfologia all’elettrocardiogramma, ossia se originano dallo stessa zona del ventricolo; si dice polimorfa in caso contrario. In base alla durata si distinguono tachicardie ventricolari sostenute (che durano più di 30”) o non sostenute.

Di solito le tachicardia ventricolari si verificano in presenza di cardiopatie organiche del cuore, come nelle cardiopatie post – infartuali o nelle cardiopatie dilatative idiopatiche (idiopatico = senza causa specifica), o in alcune forme geneticamente determinate di cardiomiopatia, come la displasia aritmogena del ventricolo destro, il miocardio non compatto o la cardiopatia da deficit di lamina.

Alla base di queste aritmie vi è un’estrema contiguità tra zone cicatriziali (o fibrose) e zone di tessuto sano, e questa “alternanza” è responsabile di una sorta di corto circuito elettrico (nel quale un impulso elettrico continua a girare continuamente nella stessa zona) che è la base della tachicardia ventricolare. La forma più frequentedi TV è quella presente nei pazienti con cardiopatia post – infartuale nella quale la cicatrice dell’infarto si trova adiacente ad una zona di tessuto sano. Più raramente le TV derivano da “isole” anomale di cellule ventricolari che generano automaticamente impulsi elettrici accelerati.

In base alla presenza, al tipo e alla gravità della cardiopatia associata, le tachicardie ventricolari sono associate a prognosi più o meno maligne.

DIAGNOSI

Visita aritmologica con ECG, ECG dinamico sec. Holter, ecocardiogramma, studio elettrofisiologico endocavitario.

TRATTAMENTI

Farmaci antiaritmici, impianto di defibrillatore (ICD), ablazione con radiofrequenza o crioenergia.

SINTESI

L’aritmia cardiaca è un’irregolarità del battito del cuore, che batte troppo lentamente, troppo velocemente o comunque in modo irregolare.

Esistono differenti tipi di aritmia e la maggior parte non è particolarmente pericolosa; alcune potrebbero invece essere rischiose per la vita e richiedono un controllo medico immediato:
un ritmo cardiaco troppo veloce prende il nome di tachicardia perchè “tachy” in greco significa veloce.
un ritmo cardiaco troppo lento prende il nome di bradicardia, perchè “brady” in greco significa lento.
altri irregolari ritmi cardiaci vengono indicati semplicemente con il termine aritmia.

Esistono diverse ragioni che determinano l’aritmia, che può sopraggiungere se:
– il nodo senoatriale non è in grado di determinare abbastanza battiti cardiaci.
– Il ritmo del nodo sinoatriale diventa anormale.
– Se altre aree degli atri assumono la stessa funzione del nodo sinoatriale.

L’aritmia che comincia dagli atri prende il nome di aritmia atriale, quella che invece comincia nei ventricoli prende il nome di aritmia ventricolare, generalmente più pericolose.

La maggior parte delle aritmie non è pericolosa ma, se una persona avverte un anomalo battito cardiaco e pensa che si potrebbe trattare di un’aritmia, allora è opportuno farsi visitare da un medico perchè in rari casi possono anche essere fatali. Si tratta più frequentemente delle aritmie legate a malattie del cuore. La ragione per cui alcune forme sono pericolose è che un battito cardiaco irregolare può compromettere la capacità del cuore di pompare abbastanza sangue, questo potrebbe determinare una bassa pressione sanguigna, che potrebbe anche portare alla morte.

Altre aritmie sopraggiungono se c’è un interruzione nel circuito elettrico del cuore, portando i ventricoli a battere separatamente dagli atri.

Nel peggiore dei casi i ventricoli non sono più in grado di battere, creando una condizione chiamata fibrillazione ventricolare. Quando ciò si verifica il cuore non riesce a pompare e il il paziente decede in temi brevi. La ragione più comune di una morte improvvisa è appunto la fibrillazione ventricolare.
Il trattamento potrebbe richiedere medicinali a lungo termine, raramente sono necessari interventi chirurgici per impiantare defibrillatori o pacemaker.

L’aritmia cardiaca può avere origine da diverse cause:
Alcune persone nascono con un ritmo cardiaco irregolare.
Altre persone potrebbero avere l’aritmia se sono solite consumare tabacco, alcoolici o caffeina. Anche le droghe illegale possono indurre l’aritmia.
Alcune persone sviluppano l’aritmia dopo aver assunto pillole per la dieta o alcuni tipi di medicinali.
Anche le malattie del cuore possono causare l’aritmia. Le ragioni più comuni dell’aritmia sono l’infarto e la dilatazione del cuore causata da una pressione sanguigna troppo alta.
Alcune condizioni cliniche, come la tiroide sovrafunzionante, possono altresì condurre all’aritmia.

I sintomi di una aritmia possono essere diversi e svariati, infatti quando il ritmo cardiaco diventa irregolare il soggetto potrebbe avvertire una delle seguenti sensazioni a livello del petto:
– palpitazioni,
– dolori lancinanti,
– pulsazioni,
– tremolio,
– sentirsi come se il cuore non battesse.

Nelle aritmie più gravi, le persone si sentono deboli o hanno le vertigini.

DIAGNOSI

Dopo un attento esame della storia medica e dopo un accurato esame fisico, il dottore potrebbe prescrivere dei test per accertare se il paziente abbia l’aritmia e, in caso positivo, di quale tipo si tratta.
L’aritmia cardiaca viene diagnosticata con un elettro-cardiogramma, chiamato anche ECG. Quest’esame dura solo 5 minuti, e gli elettrodi vengono collocati sul petto in modo da registrare gli impusli elettrici del cuore.
Siccome alcune forme non si presentanto con costanza, durante un elettro-cardiogramma potrebbe non essere notato nulla di anomalo: in tal caso al paziente potrebbe essere chiesto di indossare un ECG portatile chiamato monitor Holter, in grado di registrare gli impulsi elettrici del cuore per 24 ore, proprio come farebbe un normale ECG.
Se l’aritmia si presenta ogni pochi giorni o ogni poche settimane, il paziente potrebbe indossare un dispositivo registratore, quando il paziente avverte l’aritmia, attiva il dispositivo per registrare un ECG. L’informazione registrate viene poi trasmessa al medico per le analisi. Questo meccanismo viene chiamato monitoraggio transtelefonico.

Il medico potrebbe anche richiedere al paziente di fare attività fisica durante l’ECG, che in tal caso viene dunque chiamato ECG stress test.

E’ importante capire cosa determina l’aritmia cardiaca, proprio per questo il medico controllerà il cuore, la pressione sanguigna, gli zuccheri nel sangue, e i livelli degli ormoni tiroidei. Il medico potrebbe anche richiedere uno studio elettro-fisiologico, o SEF. Durante questa procedura lo specialista inserisce un tubo molto sottile in un vaso sanguigno di un braccio o di una gamba e lo spinge sino ad arrivare al cuore. Il medico può studiare cosa determina l’aritmia e quali farmaci potrebbero essere usati per trattarla.

TRATTAMENTI

Il trattamento dell’aritmia cardiaca dipende dal tipo e dalla sua gravità, molte forme non richiedono alcun trattamento.
In alcuni casi i le terapie farmacologiche potrebbero essere sufficienti a mantenere in ritmo cardiaco nella normalità, altre volte sono necessarie dei diluenti del sangue per prevenire la formazione di grumi nel cuore.
Potrebbe essere utile anche tenere sotto controllo l’alta pressione.
Se nessuno di questi trattamenti riesce a migliorare l’aritmia cardiaca, si devono tentare altre procedure. Il medico potrebbe provare a resettare il ritmo cardiaco attraverso degli shock elettrici, questa procedura è denominata cardioversione o elettroversione.

In certi casi le aritmie sono causate da aree del cuore iperattive: in questo caso il medico potrebbe inserire un tubo sottile attraverso i vasi sanguigni sino al cuore e compromettere i circuiti elettrici causando una sovrastimolazione. Questa procedura è denominata ablazione radiofrequenza.
Nei casi i cui il ritmo cardiaco è troppo lento, potrebbe essere inserito un pacemaker per mantenere il ritmo cardiaco a determinati livelli.

Nei casi in cui invece il ritmo del cuore sia troppo veloce, potrebbe essere impiantato un defibrillatore tramite intervento chirurgico. Il defibrillatore riesce ad avvertire quando il cuore sta battendo troppo velocemente per trasmettere uno shock elettrico al cuore, in modo da far ritornare il battito cardiaco alla normalità.
Il miglior modo per prevenire lo sviluppo di una grave aritmia cardiaca è mantenere il cuore in salute, osservando delle semplici regole comportamentali, quali ad esempio:
1. non fumare,
2. essere fisicamente attivi, sotto la supervisione del medico,
3. seguire una dieta sana ed equilibrata, che sia ricca di fibre e carente di grassi,
4. controllare il livello di colesterolo nel sangue. Se è alto, tenerlo costanetemente sotto controllo,
5. controllare regolamente la pressione del sangue. Se è alta, mantenerla sotto costante controllo,
6. perdere peso se si è obesi,
7. fare regolare esercizio fisico,
8. controllare il livello degli zuccheri nel sangue. Se è elevato, manterlo costantemente sotto controllo,
9. dormire abbastanza durante la notte,
10. gestire lo stress nella propria vita.

SINTESI

Le arterie sono vasi sanguigni che trasportano l’ossigeno e le sostanze nutritive dal cuore al resto dell’organismo: quando sono sane sono flessibili, forti ed elastiche, ma con l’andare del tempo la pressione eccessiva può farne ispessire e indurire le pareti. Quando questo capita il sangue non affluisce più correttamente negli organi e nei tessuti: questo processo è detto arteriosclerosi, od indurimento delle arterie. L’aterosclerosi è una forma particolare di arteriosclerosi, ma i due termini a volte vengono usati come sinonimi: l’aterosclerosi è l’accumulo di grassi all’interno e sulla superficie delle pareti arteriose, sottoforma di placche che impediscono la corretta circolazione del sangue. Le placche, inoltre, possono scoppiare, causando la formazione di un trombo.

L’aterosclerosi spesso è considerata come problema esclusivamente cardiaco, ma può colpire le arterie in qualsiasi zona dell’organismo. È comunque un disturbo che può essere curato e prevenuto.
L’aterosclerosi è una malattia lenta e progressiva che può comparire già durante l’infanzia: non si sa con esattezza quale sia la causa, ma si ritiene che il disturbo potrebbe essere provocato da un danno o da una lesione alla parete interna di un’arteria.

Il danno potrebbe essere causato da:
– Ipertensione
– Ipercolesterolemia (spesso derivante dall’eccesso di colesterolo nell’alimentazione)
– Fumo e altre sorgenti di nicotina
– Diabete

L’indurimento delle arterie è un processo che avviene sul lungo periodo, tra i fattori di rischio per l’aterosclerosi, oltre all’invecchiamento, possiamo ricordare:
– Ipertensione (pressione alta),
– Ipercolesterolemia (colesterolo alto),
– Diabete,
– Obesità,
– Fumo,
– Precedenti famigliari di aneurisma o disturbi cardiaci preesistenti.

I sintomi dell’aterosclerosi, di forma da lieve a grave, dipendono dalle arterie colpite.

Ad esempio:

Se l’aterosclerosi colpisce le arterie cardiache potreste avere sintomi simili a quelli di un infarto, ad esempio:
– dolore al torace (angina),
– male o intorpidimento alle braccia o alle gambe.

Se l’aterosclerosi colpisce le arterie dirette al cervello, potreste soffrire di sintomi come:
– intorpidimento e debolezza improvvisi agli arti,
– difficoltà di parola,
– balbettio inspiegabile,
– debolezza della muscolatura facciale.

Questi sintomi sono da imputare a un attacco ischemico transitorio (TIA) che, se non adeguatamente curato, può trasformarsi in ictus. Prestate inoltre particolare attenzione ai primi sintomi dei problemi circolatori, ad esempio:
– dolore al torace (angina),
– male o intorpidimento alle braccia o alle gambe.

Con una diagnosi e una terapia precoci sarete in grado di impedire che l’aterosclerosi peggiori e potrete prevenire situazioni di emergenza o pericolo. Le complicazioni dell’aterosclerosi dipendono dalla posizione delle arterie colpite, ad esempio:
– Coronaropatia. Se l’aterosclerosi ostruisce le arterie nella zona del cuore, potreste iniziare a soffrire di coronaropatia, che causa dolore al torace (angina) oppure un infarto.
– Carotidopatia. Se l’aterosclerosi ostruisce le arterie vicine al cervello, potreste iniziare a soffrire di carotidopatia, in grado di provocare un attacco ischemico transitorio (TIA) o un ictus.
– Arteropatia periferica. Se l’aterosclerosi ostruisce le arterie delle braccia o delle gambe, potreste soffrire di problemi di circolazione agli arti, definiti arteropatia periferica. La vostra sensibilità al caldo o al freddo diminuirà, aumentando il rischio di ustioni o congelamento. In rari casi, la cattiva circolazione negli arti può causare la morte dei tessuti (cancrena).
– Aneurisma. L’aterosclerosi può anche causare un aneurisma, una grave complicazione che si può verificare in qualsiasi parte dell’organismo. L’aneurisma è un rigonfiamento nella parete arteriosa; il sintomo più comune è il dolore pulsante nella zona colpita. Se l’aneurisma scoppia, potreste ritrovarvi ad affrontare un’emorragia interna molto pericolosa. Di solito si tratta di un evento improvviso e catastrofico, ma è anche possibile che l’aneurisma inizi a perdere lentamente. Se il trombo all’interno dell’aneurisma entra in circolo, potrebbe bloccare un’arteria in qualche punto distante.

DIAGNOSI

Il medico può scoprire i sintomi di un restringimento, di un rigonfiamento o di un indurimento delle arterie durante una normale visita. Tra di essi ricordiamo:
– Battito debole o assente nella parte del corpo sotto l’arteria ostruita,
– Pressione minore nell’arto colpito,
– Sibili (soffi) udibili appoggiando lo stetoscopio sull’arteria,
– Tracce di una massa pulsante (aneurisma) nell’addome o nel retro del ginocchio,
– Ferite e lividi che stentano a guarire nella zona in cui la circolazione è insufficiente.

A seconda dei risultati della visita il medico potrà consigliarvi uno o più esami diagnostici, tra cui:
– Esami del sangue: gli esami di laboratorio sono in grado di individuare l’ipercolesterolemia e l’iperglicemia, entrambi fattori di rischio per l’aterosclerosi. Prima dell’esame dovrete stare a digiuno, bevendo solo acqua, per un periodo variabile dalle nove alle dodici ore. Il medico dovrebbe avvisarvi in anticipo se intende effettuare questi esami durante la visita.
– Ecodoppler: il medico potrebbe usare uno speciale dispositivo ecografico (l’ecodoppler) per misurare la pressione in diversi punti del braccio o della gamba. Le misurazioni possono aiutarlo a stimare il grado di ostruzione e anche la velocità del sangue all’interno delle arterie.
Indice caviglia-brachiale: quest’esame è in grado di diagnosticare l’aterosclerosi nelle arterie delle gambe e dei piedi. Il medico confronta la pressione a livello della caviglia con quella misurata nel braccio. La misura risultante è detta indice caviglia-brachiale. Se la differenza è maggiore del dovuto, può indicare un’arteropatia periferica, normalmente causata dall’aterosclerosi.
– Elettrocardiogramma (ECG) : l’elettrocardiogramma registra i segnali elettrici diretti verso il cuore. L’ECG spesso è in grado di rivelare un infarto già avvenuto oppure un infarto in corso. Se i sintomi si verificano soprattutto durante l’esercizio fisico, il medico potrebbe chiedervi di camminare su un tapis roulant o di pedalare su una cyclette durante l’esame.
– Test da sforzo: il test da sforzo è usato per raccogliere informazioni sulla funzionalità cardiaca durante un’attività fisica. L’esercizio fisico fa funzionare il cuore meglio e più velocemente rispetto alle normali attività quotidiane, quindi il test da sforzo è in grado di portare alla luce problemi cardiaci che diversamente potrebbero passare inosservati. Il test da sforzo di solito consiste nel camminare su un tapis roulant o pedalare su una cyclette mentre vi vengono controllati il battito cardiaco, la pressione e la respirazione.
– Cateterizzazione cardiaca e angiografia : quest’esame è in grado di stabilire se le arterie coronarie sono ristrette o bloccate. Un catetere (tubicino lungo e sottile) viene introdotto in un’arteria, di solito nella gamba, e guidato fino alle arterie cardiache; attraverso di esso, poi, viene iniettato un mezzo di contrasto liquido. Man mano che il mezzo di contrasto si diffonde nelle arterie, queste diventano visibili nelle radiografie, evidenziando eventuali ostruzioni.

TRATTAMENTI

Le modifiche dello stile di vita, ad esempio seguire una dieta più sana e fare più esercizio fisico, spesso rappresentano la terapia migliore per l’aterosclerosi; in alcuni casi, tuttavia, possono essere consigliabili anche farmaci od interventi chirurgici.

Diversi farmaci possono rallentare o addirittura contrastare gli effetti dell’aterosclerosi, eccone alcuni:
Farmaci anticolesterolo: diminuendo drasticamente il colesterolo LDL (lipoproteine a bassa densità, il cosiddetto colesterolo “cattivo”) si riesce a rallentare o addirittura a sconfiggere l’accumulo di depositi grassi nelle arterie. Anche far aumentare il colesterolo HDL (lipoproteine ad alta densità, il cosiddetto colesterolo “buono”) può essere utile. Il medico può scegliere tra diversi tipi di farmaci anticolesterolo, ad esempio le statine e i fibrati.
Antipiastrinici: il medico può prescrivere farmaci antipiastrinici, ad esempio l’aspirina, per diminuire la probabilità che le piastrine creino grumi che ostruiscono le arterie, formando trombi in grado di causare problemi più gravi.

Betabloccanti: questi farmaci sono usati di frequente per le coronaropatie. Rallentano il battito cardiaco e fanno diminuire la pressione, diminuendo il fabbisogno del cuore, e spesso riescono ad alleviare i sintomi del’angina. I betabloccanti fanno diminuire il rischio di infarto e di aritmie cardiache.
ACE inibitori (inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina): questi farmaci possono contribuire a rallentare il decorso dell’aterosclerosi, perché abbassano la pressione e hanno altri effetti positive sulle arterie cardiache. Gli ACE inibitori possono anche diminuire il rischio di infarti ricorrenti.
Calcio-antagonisti: sono farmaci che diminuiscono la pressione e in alcuni casi sono usati nella cura dell’angina.
Diuretici: l’ipertensione è uno dei principali fattori di rischio per l’aterosclerosi, i diuretici abbassano la pressione.

Alcuni pazienti, tuttavia, dovranno ricorrere a una terapia più aggressiva. Se i sintomi sono gravi o l’ostruzione dell’arteria minaccia la sopravvivenza dei muscoli o dell’epidermide, potreste dovervi sottoporre a uno degli interventi qui elencati:
Angioplastica: in quest’intervento il chirurgo inserisce un catetere (tubicino lungo e sottile) nell’arteria bloccata o ostruita. Al suo interno viene inserito un secondo catetere, con una specie di palloncino sgonfio fissato all’estremità che raggiunge la zona colpita. Poi il palloncino viene gonfiato, e va a premere i depositi contro le pareti arteriose. Un tubicino a rete (stent) di solito sarà lasciato nell’arteria per tenerla aperta.
Endoarterectomia: in alcuni casi i depositi devono essere rimossi chirurgicamente dalle pareti dell’arteria ostruita. Se l’intervento viene eseguito sull’arteria del collo (arteria carotide), è detto enoarterectomia carotidea.
Terapia trombolitica: se l’arteria è ostruita da un trombo, il medico può iniettare un farmaco anticoagulante nel tratto colpito per far dissolvere il trombo. Bypass: il chirurgo può creare un bypass, usando un vaso sanguigno prelevato da un’altra zona dell’organismo oppure un tubicino sintetico. In questo modo il sangue riuscirà ad aggirare l’arteria bloccata o ostruita.

I cambiamenti nello stile di vita possono aiutarvi ad arrestare o a rallentare il decorso dell’aterosclerosi:
1. Smettete di fumare. Smettere è il modo migliore per arrestare il progresso dell’aterosclerosi e diminuire il rischio di complicazioni.
2. Fate esercizio fisic. L’esercizio fisico regolare può indurre i muscoli a usare l’ossigeno con maggior efficienza. L’attività fisica può anche migliorare la circolazione e facilitare la creazione di nuovi vasi sanguigni che formano una sorta di bypass naturale intorno alle arterie ostruite (vasi collaterali).
3. Seguite una dieta sana. Una dieta sana per il cuore, composta da frutta, verdura, cereali integrali e povera di grassi saturi, colesterolo e sodio, vi aiuterà a tenere sotto controllo il peso, la pressione, il colesterolo e la glicemia.
4. Dimagrite e mantenete il peso forma. Se siete in sovrappeso, perdere anche solo quattro o cinque chili potrà aiutarvi a diminuire il rischio di ipertensione e ipercolesterolemia, due dei principali fattori di rischio per l’aterosclerosi.
5. Imparate a gestire lo stress. Praticate le tecniche di gestione dello stress, ad esempio il rilassamento e la respirazione profonda.

SINTESI

Le cardiomiopatie sono patologie che colpiscono il muscolo cardiaco, e che sono generalmente associati a inappropriate ipertrofia e/o dilatazione ventricolare, riducendo l’efficienza del cuore, che fatica a pompare il sangue nel resto del corpo.

Sinonimo di cardiomiopatia è miocardiopatia. Esistono diverse modalità di classificazione della cardiomiopatia; quella più generica suddivide la cardiomiopatia in tre tipi: dilatative, ipertrofiche e restrittive.

Cardiomiopatia dilatativa – La cardiomiopatia dilatativa si caratterizza fondamentalmente per la compromissione della funzione di pompa dei ventricoli, dilatazione ventricolare e sintomi di scompenso cardiaco congestizio con estese aree di fibrosi interstiziale e perivascolare con minima quota di necrosi e infiltrazione cellulare, possibile risultato finale di un danno miocardico prodotto da vari fattori tossici, metabolici o infettivi. Esistono anche forme di cardiomiopatie dilatative dovute a malattie neuromuscolari e collagenopatie.

Cardiomiopatia ipertrofica – La cardiomiopatia ipertrofica (talvolta indicata con la sigla HCM, Hypertrophic Cardiomyopathy) è una patologia genetica caratterizzata da un rilevante aumento dello spessore della parete cardiaca. Spesso l’ipertrofia coinvolge l’intero ventricolo sinistro; l’ipertrofia cardiaca non sempre è relativa a una cardiomiopatia ipertrofica; il cuore (o meglio, il ventricolo sinistro) può aumentare di spessore in seguito a patologie, ma anche conseguentemente a un’intensa attività fisica.

Cardiomiopatia restrittiva – Le cardiomiopatie restrittive sono un gruppo eterogeneo di patologie di cui esistono forme primarie, ma anche secondarie. Le varie patologie che rientrano in questo gruppo sono accomunate dal fatto che in tutte è presente un pattern restrittivo; con questa locuzione si fa riferimento al fatto che durante la diastole è presente un ostacolo che impedisce il regolare riempimento del ventricolo; quest’ultimo non è in grado di accogliere correttamente il sangue perché le sue pareti sono rigide e poco distendibili; conseguentemente si registra un aumento della pressione diastolica ventricolare.

DIAGNOSI

La diagnosi di cardiomiopatia si basa su un’accurata visita medica in cui il medico indagherà anche sulla presenza di eventuali problemi cardiologici in famiglia. Al termine della visita il medico potrebbe prescrivere:
– una radiografia del torace
– un elettrocardiogramma
– un ecocardiogramma
– un test da sforzo
– una scintigrafia miocardica
– una risonanza magnetica cardiaca
– esami del sangue

In base ai risultati di questi esami si potrebbe rendere necessaria l’esecuzione di ulteriori esami di secondo livello, quali coronarografia, studio emodinamico, biopsia miocardica.

TRATTAMENTI

Anche le modalità di trattamento delle cardiomiopatie sono variegate e dipendono da vari fattori, dal tipo di cardiomiopatia e dal tipo di disturbo presente. Gli obiettivi sono però sempre ridurre i sintomi, prevenire il peggioramento della situazione e ridurre il rischio di complicazioni.

In caso di cardiomiopatia dilatativa potrebbe essere necessario assumere farmaci (come ACE-inibitori, antagonisti del recettore dell’angiotensina, beta-bloccanti, diuretici e digossina), sottoporsi a interventi chirurgici per l’impianto di particolari pacemaker o defibrillatori, o un trattamento combinato farmaci-intervento. In caso di cardiomiopatia ipertrofica potrebbero essere prescritti beta-bloccanti, calcio-antagonisti o particolari antiaritmici. Se il trattamento farmacologico non dovesse essere sufficiente potrebbe essere necessario un intervento chirurgico correttivo o l’impianto di un pacemaker o di un defibrillatore.

Il trattamento delle cardiomiopatie restrittive è mirato essenzialmente al miglioramento dei sintomi. Il medico può consigliare di limitare il consumo di sale e di tenere quotidianamente sotto controllo il peso. Potrebbero essere prescritti diuretici o farmaci per ridurre la pressione e tenere sotto controllo il battito cardiaco. Nel caso in cui fosse possibile identificare la causa della cardiomiopatia saranno prescritti anche trattamenti specifici contro la problematica sottostante.

Nei casi più gravi in cui la malattia progredisce nonostante i trattamenti potrebbe essere necessario un trapianto o l’impianto di un dispositivo di assistenza ventricolare (VAD).

SINTESI

Cos’è l’infarto del miocardio?
L’infarto è la necrosi di un tessuto o di un organo che non ricevono un adeguato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa. Con il termine di infarto miocardico si intende la necrosi di una parte del muscolo cardiaco a seguito dell’ostruzione di una delle coronarie, arterie deputate alla sua irrorazione.

Come si manifesta?
L’infarto miocardico si può manifestare a riposo, dopo un’emozione intensa, durante uno sforzo fisico rilevante o quando lo sforzo è già terminato. Il suo esordio clinico è brusco ed è in prevalenza caratterizzato da sintomi tipici, che sono quindi facilmente identificabili nella maggior parte dei casi. E’ una malattia associata ad elevata mortalità se non adeguatamente trattata, che richiede l’attivazione del sistema di soccorso urgente sul territorio (118) e l’arrivo del paziente presso un ospedale dotato di tutte le potenzialità di trattamento della malattia, nel più breve tempo possibile. Le complicanze dell’infarto in fase acuta possono essere:
– Lo shock, con grave prostrazione del paziente, bassa pressione arteriosa, tachicardia ed estremità fredde e umide a causa della vasta estensione dell’area di necrosi
– L’edema polmonare acuto, con grave mancanza di respiro a riposo
– Le aritmie, alcune delle quali potenzialmente fatali
– L’ischemia di altri organi, per la scarsa capacità del cuore di svolgere la propria azione di pompa vitale per la circolazione del sangue.

Quali sono le cause dell’infarto del miocardio?
L’infarto miocardico è prodotto dall’occlusione parziale o totale di un’arteria coronarica. Questo avviene per la formazione di un coagulo (o trombo) su una delle lesioni aterosclerotiche che possono essere presenti sulla parete vascolare e che sono a stretto contatto con il lume interno. Non è ad oggi nota ne’ la causa dell’aterosclerosi ne’ della formazione improvvisa di un coagulo sulla placca coronarica: sono state avanzate diverse ipotesi tra le quali l’infiammazione dei vasi di varia natura e l’infezione da parte di germi molto diffusi nei paesi occidentali.
In rari casi l’infarto è la conseguenza di una malformazione coronarica (con restringimento del lume e formazione comunque di un trombo) o dello scollamento tra i foglietti della parete coronarica (dissezione) che porta quello interno a sporgere nel lume restringendolo in modo rilevante e predisponendolo alla chiusura totale (anche in questo caso per trombo o per compressione meccanica). Sono state descritte negli ultimi anni forme di infarto cardiaco che si manifestano in assenza di malattia coronarica e con un interessamento prevalente dell’apice del cuore.
La sindrome di Takotsubo è un infarto miocardico dell’apice che esordisce dopo un intenso stress emotivo e che colpisce prevalentemente le donne. E’ caratterizzata da una fase iniziale in cui la porzione di muscolo cardiaco che non si contrae può essere abbastanza estesa, coinvolgendo l’apice e i segmenti intermedi, con tendenziale buon recupero della contrattilità a distanza. Le coronarie sono indenni da restringimenti o da occlusioni. Il cuore, osservato all’ecocardiogramma, tende ad assumere un aspetto che ricorda il cestello utilizzato dai pescatori in Giappone, da cui il nome della sindrome che è stato proposto dai ricercatori giapponesi che l’hanno descritta per primi.

L’infarto resta anche oggi una malattia mortale. La mortalità è tanto maggiore quanto più tardivo è l’accesso del paziente con infarto miocardico acuto ad un ospedale nel quale possa essere trattato adeguatamente. E’ opportuno ricorrere al 118 in tutti i casi in cui si sospetti la presenza di un infarto cardiaco per iniziare al più presto il monitoraggio del paziente, trattare tempestivamente le complicanze fatali che possono verificarsi nelle prime ore (aritmie gravi come la fibrillazione ventricolare) e cominciare a somministrare i primi farmaci efficaci sul coagulo o trombo coronarico.

Quali sono i sintomi?
I sintomi più frequenti sono il dolore al petto, la sudorazione fredda profusa, uno stato di malessere profondo, la nausea e il vomito. Il dolore, definito anche precordiale (prossimo alla sede intratoracica del cuore) o retrosternale (il paziente lo attribuisce allo spazio toracico che sta dietro allo sterno) si può irradiare ai vasi del collo e alla gola, alla mandibola (soprattutto ramo sinistro), alla porzione di colonna vertebrale che sta fra le due scapole, agli arti superiori (il sinistro e’ coinvolto più spesso del destro) e allo stomaco.
Spesso il dolore al petto compare per brevi intervalli temporali e si risolve spontaneamente, prima di manifestarsi in modo più duraturo, con il corollario dei sintomi già descritto. Quando il dolore al petto, spontaneo o da sforzo, si manifesta per una durata massima di 30 minuti si parla di angina pectoris: una condizione di ischemia del cuore che non arriva ad essere così prolungata da provocare necrosi. Ci sono pazienti che lamentano l’angina pectoris da ore o giorni a mesi o anni prima di un vero e proprio infarto.

L’infarto miocardico è un’esperienza soggettiva: non tutte le persone che ne sono colpite descrivono la presenza degli stessi sintomi. Normalmente, un episodio acuto dura circa 30-40 minuti, ma l’intensità dei sintomi stessi può variare notevolmente. In alcuni casi il paziente riferisce di avvertire una sensazione di morte imminente, che lo porta a cercare il soccorso medico. Possono essere riportati anche stordimento e vertigini, mancanza di respiro in assenza di dolore toracico (soprattutto nei pazienti diabetici), svenimento con perdita di coscienza
Molte persone confondono l’infarto miocardico con l’arresto cardiaco. Sebbene l’infarto del miocardio possa causare l’arresto cardiaco, non ne è l’unica causa ed un infarto miocardico non determina necessariamente l’arresto cardiaco.

Quali sono i fattori di rischio? I fattori di rischio per l’aterosclerosi e l’infarto sono distinti in fattori modificabili e fattori non modificabili.

Fattori non modificabili:
– Età: il rischio di infarto, come per quasi tutte le patologie cardiovascolari, aumenta con l’avanzare dell’età.
– Sesso: l’aterosclerosi e l’infarto sono più comuni negli uomini rispetto alle donne per le decadi dell’eta’ giovanile e matura. Dopo la menopausa femminile il rischio di aterosclerosi e infarto e’ analogo negli uomini e nelle donne.
– Familiarità: chi presenta nella propria storia familiare casi di malattia cardiovascolare acuta è maggiormente a rischio di infarto, soprattutto se la patologia cardiovascolare del congiunto si e’ manifestata in età giovanile

Fattori modificabili:
– Stile di vita: sedentarietà e fumo di tabacco sono fra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare. Smettere di fumare e condurre una vita attiva, facendo regolarmente almeno 20-30 minuti di attività fisica al giorno, è il metodo migliore per prevenire i problemi cardiovascolari e per tutelare la propria salute.
– Alimentazione: Una dieta troppo ricca di calorie e grassi contribuisce ad aumentare il livello di colesterolo e di altri grassi (lipidi) nel sangue, rendendo molto più probabili l’aterosclerosi e l’infarto. Un’alimentazione sana ed equilibrata ha una grande valenza in termini di prevenzione delle malattie cardiovascolari.
– Ipertensione arteriosa: la “pressione alta” o ipertensione arteriosa può avere varie cause e interessa una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa ad una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze, come l’infarto cardiaco o cerebrale. Condiziona un aumento del lavoro cardiaco che si traduce nel tempo con il progressivo malfunzionamento del cuore e con la comparsa di scompenso cardiocircolatorio.

– Diabete: l’eccesso di glucosio nel sangue danneggia le arterie e favorisce l’ aterosclerosi, l’infarto miocardico e cerebrale e il danno di organi importanti come il rene, con la comparsa di insufficienza renale, a sua volta associata ad aumentato rischio cardiovascolare.
– Droghe: l’uso di droghe può aumentare notevolmente la possibilità di infarto miocardico ed abbassare l’età media in cui si manifesta.

DIAGNOSI

L’infarto viene generalmente diagnosticato a partire dai sintomi riferiti dal paziente. Nel caso di sospetto infarto del miocardio, è possibile confermare l’ipotesi diagnostica mediante l’esecuzione di un elettrocardiogramma.
Attraverso gli esami del sangue, è possibile diagnosticare un infarto rilevando la presenza di alcune sostanze (gli enzimi cardiaci), che vengono rilasciate nel sangue dalle cellule del muscolo cardiaco che sono andate incontro a morte e permangono in circolo fino ad un paio di settimane dopo l’evento.

È possibile verificare la diagnosi di infarto del miocardio e valutare i danni causati dallo stesso attraverso un ecocardiogramma con Color Doppler. La malattia delle coronarie viene valutata mediante coronarografia con impiego del mezzo di contrasto. Dopo un infarto si può valutare indirettamente il grado di efficienza della circolazione coronarica e l’eventuale comparsa di ischemia mediante Elettrocardiogramma da sforzo, Ecocardiogramma da sforzo o da stress farmacologico, Scintigrafia miocardica da sforzo o da stress farmacologico e Risonanza Magnetica da stress farmacologico.

TERAPIA

Il primo obiettivo del trattamento dell’infarto miocardico, all’esordio della malattia, è quello di promuovere la riapertura della coronaria che si è occlusa. In questa fase il tempo risparmiato tra l’arrivo del paziente e la riapertura del vaso si traduce in un guadagno di muscolo cardiaco prima che venga danneggiato in modo irreversibile.
Il trattamento prevede la disostruzione del lume della coronaria mediante l’introduzione di un catetere dotato di palloncino gonfiabile all’apice, capace di passare attraverso il coagulo presente nel punto di massimo restringimento della coronaria stessa e di schiacciarne le componenti sulle pareti (angioplastica coronarica), e il posizionamento di una protesi a rete all’interno del vaso (stent) che contribuisce a mantenerlo aperto dopo la disostruzione.

In mancanza di angioplastica o della possibilità di raggiungere le coronarie con il catetere esistono anche farmaci che sono in grado di dissolvere il trombo dopo essere stati somministrati per via endovenosa (trombolitici) benché’ non utilizzabili in tutti i pazienti, in quanto associati alla possibilità di produrre emorragie anche gravi.
Altri farmaci, tra cui gli anticoagulanti, gli antiaggreganti, i betabloccanti, gli ACE inibitori e le statine, sono quasi sempre presenti nel corredo farmacologico del paziente colpito da infarto miocardico. Il loro uso va valutato in base al profilo di rischio emorragico del paziente, alla tolleranza individuale e alle controindicazioni che variano da soggetto a soggetto.

In tutti i casi in cui si sia rilevata una malattia coronarica grave o estesa e che non siano trattabili con l’angioplastica coronarica e lo stent si può ricorrere all’intervento di bypass coronarico che consiste nel creare chirurgicamente un canale di comunicazione fra l’aorta e la coronaria ristretta o ostruita a valle della lesione, mediante l’utilizzo di altre arterie (arteria mammaria interna) o vene (safena rimossa dagli arti inferiori). Normalmente, questo tipo di approccio non viene utilizzato in emergenza a meno che non vi sia assoluta necessità.

PREVENZIONE

La terapia prescritta alla dimissione prevede sempre l’Aspirina spesso associata ad un altro antiaggregante, che andrà mantenuto per un tempo variabile da un mese ad un anno, il betabloccante, l’ACE-inibitore e la statina. Intolleranze individuali o la controindicazione assoluta ad uno di questi preparati puo’ essere la causa della loro mancata prescrizione.

Questa terapia e’ spesso affiancata da altri preparati, secondo le caratteristiche individuali dei soggetti e le malattie associate. Lo scopo della terapia e’ quello di rallentare la progressione dell’aterosclerosi e di prevenire un secondo episodio infartuale, le sue temibili complicanze come la morte o l’ictus, e ridurre l’evoluzione verso un malfunzionamento del cuore e della circolazione (scompenso).

Ancora una volta la modificazione dello stile di vita può contribuire enormemente alla prevenzione. Viene pertanto raccomandato di:
Ridurre il proprio peso corporeo fino al raggiungimento di un valore nella norma per età e sesso. La valutazione del peso corporeo viene fatta non solo in assoluto ma soprattutto come indice di massa corporea o BMI, unità di volume nella quale si tiene conto di peso e altezza, i cui valori normali sono stati condivisi dalla comunità scientifica internazionale.
Smettere di fumare, facendosi aiutare anche da centri specializzati ad assistere pazienti che non sono in grado di sostenere questa decisione da soli.
Praticare attività fisica regolarmente, con intensità variabile a seconda di età e condizioni generali di salute. È a questo proposito importante discutere con il proprio medico in merito ad un programma di allenamento adatto alle proprie caratteristiche.

Evitare cibi grassi, eccessivamente conditi o fritti. Non eccedere con alcool (un bicchiere di vino al pasto al giorno) e dolci. Privilegiare i grassi vegetali e i pasti a base di verdure, fibre, carni magre e pesce.
Limitare, per quanto possibile, le situazioni che possono essere fonte di stress, specialmente se queste tendono a protrarsi nel tempo.

Quali tecniche si usano per la riabilitazione?
Dopo un infarto miocardico può essere indicato un periodo di riabilitazione cardiologica. La stessa può essere fatta in regime di degenza o ambulatorialmente, secondo la gravità dell’infarto stesso, la capacità di recuperare la propria attività fisica da parte del paziente e le eventuali malattie extracardiache associate. Le principali finalità della riabilitazione sono quelle di una graduale ripresa della capacità di esercizio individuale, di un assestamento della terapia che si avvicini il più possibile a quanto sarà assunto dal paziente nella vita extra-ospedaliera e, infine, di modificazione dello stile di vita. Per le diverse modalità di esecuzione della riabilitazione e relativi programmi si rimanda alla sezione specifica.

SINTESI

Con il termine “ipertensione polmonare” si intende un aumento della pressione del sangue all’interno dei vasi arteriosi del polmone dovuta alla distruzione, all’ispessimento parietale, al restringimento o all’ostruzione dei vasi stessi.
La pressione polmonare media è normalmente di circa 14 mmHg a riposo: si inizia a parlare di ipertensione polmonare quando la pressione polmonare media supera i 25 mmHg. Questa condizione sottopone il ventricolo destro (deputato a pompare sangue verso i polmoni) a un sovraccarico di pressione e volume, che può condurlo all’insufficienza contrattile e allo scompenso.
Se non opportunamente trattata, l’ipertensione polmonare può degenerare, causando ulteriore restringimento dei vasi sanguigni e aggravando i sintomi tipici della patologia.

L’ipertensione polmonare può essere di due tipi:
1. Primitiva o idiopatica: è una condizione rara che interessa principalmente il sesso femminile. Insorge più frequentemente tra i 30 e i 50 anni. Nonostante la causa dell’ipertensione polmonare primitiva sia ancora sconosciuta, la patologia può risultare associata a particolari mutazioni genetiche.
2. Acquisita o secondaria: è molto più comune della forma primitiva.

La patologia nella forma secondaria è stata osservata in associazione a:
– Malattie polmonari come l’enfisema, la fibrosi polmonare, la broncopneumopatia cronica ostruttiva e la patologia respiratoria legata ai disordini del sonno (apnee notturne).
– Embolia polmonare e ipertensione polmonare trombo embolica cronica.
– Malattie autoimmuni del tessuto connettivo, come la sclerodermia o il lupus eritematoso sistemico.
– Difetti cardiaci congeniti o malattie del cuore sinistro (valvulopatie, grave insufficienza cardiaca).
– Anemia emolitica cronica (anemia falciforme).
– Malattie croniche del fegato con ipertensione portale.
– Infezioni da HIV.
– Assunzione di alcuni farmaci (anoressizzanti, inibitori del reuptake della serotonina) o di sostanze stimolanti (cocaina, anfetamine).

La sintomatologia dell’ipertensione polmonare può comprendere:
– Respirazione difficoltosa, soprattutto durante sforzi fisici.
– Stanchezza o affaticabilità.
– Svenimenti.

Nelle fasi avanzate della patologia la respirazione difficoltosa può insorgere anche a riposo ed è possibile che insorgano dolori al petto tipici dell’angina pectoris (segno di sofferenza cardiaca) ed edema (ristagno di liquidi) agli arti inferiori.

DIAGNOSI

La tecnica non invasiva migliore per approcciare la diagnosi di ipertensione polmonare è l’ecocardiografia transtoracica. Un ecocardiogramma permette una visualizzazione molto accurata del cuore e consente di documentare le alterazioni morfologiche e strutturali delle camere cardiache destre che si sviluppano come conseguenza dell’aumento dei valori di pressione polmonare. La metodica Doppler consente inoltre di effettuare una stima indiretta della pressione sistolica (cioè la pressione massima) nell’arteria polmonare.
Per effettuare una diagnosi definitiva è però necessario sottoporsi al cateterismo cardiaco: attraverso questo esame è infatti possibile misurare in modo diretto alcuni parametri, la cui alterazione si correla con una prognosi sfavorevole della malattia: la pressione nell’atrio destro del cuore, la pressione polmonare media, la portata cardiaca.

Attraverso il cateterismo cardiaco è inoltre possibile eseguire il test di vaso-reattività polmonare: mediante la somministrazione di farmaci che inducono la dilatazione dei vasi sanguigni polmonari è possibile identificare i pazienti che presentano una residua capacità di vasodilatazione polmonare e che potrebbero trarre giovamento dalle terapie farmacologiche.

Possono inoltre risultare utili:
– Spirometria: il paziente respira tramite un boccaglio e l’apparecchio collegato al boccaglio misura vari aspetti della respirazione, per riscontrare eventuali anomalie che rimandano a patologie polmonari.
– Angio-tomografia computerizzata del torace e angiopneumografia: sono esami radiologici che permettono di visualizzare il decorso delle arterie polmonari e la loro eventuale occlusione.
– Scintigrafia polmonare perfusoria: attraverso questo esame si fa una “fotografia” della circolazione sanguigna nei polmoni. In presenza di ostruzioni si rilevano difetti di perfusione.
– Emogasanalisi (EGA): è un prelievo di sangue arterioso per misurare la quantità di ossigeno e di anidride carbonica in esso presenti.
– Test del cammino e test da sforzo cardiopolmonare: per valutare la tolleranza cardiaca allo sforzo e la presenza di eventuale insufficienza respiratoria.

TRATTAMENTI

Il trattamento varia a seconda che si soffra delle forma primitiva o secondaria della malattia.
Nel caso di ipertensione polmonare secondaria, la terapia si basa principalmente sui trattamenti volti alla cura della condizione che ha scatenato la patologia. Il trattamento dell’ipertensione polmonare primaria si basa sulla somministrazione di farmaci che sono in grado di vasodilatare il circolo polmonare come calcio antagonisti, prostacicline, farmaci antiendotelina e inibitori della fosfodiesterasi tipo 5 (sildenafil e simili).
È indicato in molti casi l’impiego di anticoagulanti orali, che possono essere associati a diuretici e ad altre terapie dell’insufficienza cardiaca, in caso di scompenso di circolo.

SINTESI

La miocardite è un’infiammazione del muscolo cardiaco che può comportare insufficienza cardiaca, irregolarità del ritmo cardiaco da infiammazione e / o cicatrici del sistema elettrico del cuore.

La miocardite può essere causata da una varietà di infezioni e patologie, quali:
– virus
– sarcoidosi
– malattie immunitarie: come il lupus sistemico, ecc

Quando il cuore viene colpito da un’infezione l’agente infettivo danneggia o distrugge le cellule muscolari delle sue pareti; nel contempo le cellule del sistema immunitario, deputate a combatterla, possono a loro volta danneggiare il muscolo cardiaco, contribuendo in modo rilevante al quadro globale.
In questa rara circostanza le pareti del cuore si ispessiscono e si indeboliscono, dando luogo ai sintomi tipici di uno scompenso cardiaco.

La prognosi dipende dalla causa alla base dell’infezione e dallo stato di salute generale di chi ne è colpito: se in alcuni casi si può guarire completamente, in altri lo scompenso può cronicizzare.
Fra le altre possibili complicazioni sono inclusi lo sviluppo di cardiomiopatie e l’estensione dell’infiammazione al pericardio con conseguente pericardite.

Il sintomo più frequente di miocardite è il dolore al petto. Quando la miocardite è più grave, porta all’indebolimento del muscolo cardiaco. La miocardite può causare insufficienza cardiaca (con sintomi di dispnea, affaticamento, accumulo di liquido nei polmoni, ecc. ), così come le irregolarità del ritmo cardiaco da infiammazione e / o cicatrici del sistema elettrico del cuore.

DIAGNOSI

La miocardite viene diagnosticata rilevando segni di irritazione del muscolo cardiaco. Per diagnosticare una miocardite potrebbero essere prescritti:
– esami del sangue, inclusi le emocolture e altri esami infettivologici
– RX del torace
– ECG
– ecocardiogramma
– cateterismo cardiaco con biopsia endomiocardica

TRATTAMENTI

Il trattamento più adatto in caso di miocardite dipende dalla causa scatenante e può includere:
– l’assunzione di antibiotici
– l’assunzione di antinfiammatori

Qualora la compromissione cardiaca fosse molto rilevante è necessario ricoverare il paziente in ambiente ospedaliero e somministrare la terapia dello scompenso cardiaco. Nelle forme più gravi si impongono la degenza in terapia intensiva e i trattamenti farmacologici e meccanici del caso (inclusi il posizionamento di un pace-maker temporaneo o definitivo e l’impiego di un defibrillatore).

Tranne che nella sarcoidosi sistemica, dove la miocardite può rispondere ai corticosteroidi, i farmaci non si sono dimostrati efficaci per il trattamento della miocardite attiva.
I trattamenti mirano soprattutto ad alleviare l’insufficienza cardiaca (restrizione di sale, pillole d’acqua, gli ACE-inibitori, beta bloccanti, ecc. ). Su può avviare un trattamento anche con la magnetoterapia.

SINTESI

Il soffio al cuore è un rumore anomalo che il medico può sentire auscultando il battito cardiaco.
I soffi possono essere molto deboli o molto intensi, a volte invece si presentano sotto forma di fischi o sibili.
In condizioni normali il battito del cuore produce un rumore riconoscibile, dovuto alla chiusura delle valvole cardiache quando il sangue lo attraversa. I medici possono ascoltare il battito del cuore e gli eventuali soffi usando lo stetoscopio.

Esistono due tipi di soffio al cuore:
– innocente (benigno),
– anomalo.

I soffi innocenti non sono causati da problemi cardiaci e sono piuttosto comuni tra i bambini sani; a molti bambini, a un certo punto, viene infatti diagnosticato un soffio al cuore.
Il soffio “innocente” non si associa ad alcuna sintomatologia cardiologica per definizione.

I pazienti che hanno un soffio anomalo presentano invece i sintomi di problemi cardiaci. La maggior parte dei soffi anomali nei bambini sono causati da malformazioni cardiache congenite, cioè da problemi di forma e di struttura del cuore presenti già dalla nascita.

Negli adulti, invece, i soffi anomali sono causati nella maggior parte dei casi da disturbi a carico delle valvole cardiache, che si sviluppano come conseguenza di altre malattie, infezioni o semplicemente dell’invecchiamento.
Anche i soffi cardiaci prodotti da malattie del cuore possono peraltro non accompagnarsi a sintomi specifici, benché sia più frequente che, secondo la gravità della patologia, siano rilevati in pazienti che si presentano con cianosi della cute (soprattutto a livello di dita e labbra), gonfiori agli arti inferiori o aumento improvviso di peso, fiato corto, tosse cronica, fegato ingrossato, dilatazione e turgore delle vene del collo, dolore al petto, vertigini, svenimenti e, nei bambini, scarso appetito e problemi di crescita.

Il soffio al cuore non è una malattia e nella maggior parte dei casi non è pericoloso: quelli di tipo innocente non causano particolari sintomi e se si ha un soffio al cuore non è necessario limitare l’attività fisica né prendere altre particolari precauzioni. Il soffio innocente può continuare ad esistere per tutta la vita, senza richiedere alcuna terapia.
La prognosi e la terapia dei soffi anomali dipendono dal tipo e dalla gravità del problema cardiaco che li provoca.

DIAGNOSI

In genere il soffio cardiaco viene scoperto durante una visita medica, nel corso della quale il medico ausculta il cuore con lo stetoscopio appoggiato sul torace.

Per stabilire la gravità del problema il medico valuterà l’intensità del soffio, la sua localizzazione rispetto alle valvole cardiache (ogni valvola viene meglio “auscultata” in alcune posizioni specifiche sul torace), il suo tono, il momento di comparsa nel ciclo cardiaco, la durata ed eventuali fattori in grado di modificarlo come la respirazione del paziente o l’attività fisica.

Per ipotizzare una causa il medico indagherà anche su eventuali patologie e disturbi cardiaci presenti in famiglia.
Nel caso in cui si sospetti un soffio patologico potrebbero essere prescritti:
– Radiografia (Rx) torace
– Elettrocardiogramma (ECG)
– Ecocardiogramma transtoracico o transesofageo
– TAC cuore
– Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) cuore
– Cateterismo cardiaco

TRATTAMENTO

In genere il paziente con un soffio cardiaco “innocente” non richiede nessun trattamento specifico. Qualora il soffio fosse associato a una malattia extracardiaca, come l’ipertiroidismo o l’anemia, scomparirà curando la patologia sottostante.

A volte non è necessario alcun trattamento anche in caso di soffio patologico e il medico raccomanderà solo controlli regolari per monitorare la situazione.

Secondo la gravità della malattia associata al soffio potrà essere indicato:
l’impiego di vari farmaci, che spaziano dagli antiaritmici agli anticoagulanti ai medicinali per ridurre la pressione (diuretici, ACE-inibitori, betabloccanti). Interventi chirurgici veri e propri o interventi percutanei effettuati mediante l’inserzione di cateteri nei vasi sanguigni e posizionamento degli stessi all’interno delle strutture cardiache, per eliminare o correggere anomalie specifiche.

SINTESI

La stenosi aortica è una riduzione della capacità di apertura della valvola aortica. La stenosi aortica rappresenta un’ostruzione alla fisiologica fuoriuscita del sangue tra il ventricolo sinistro e l’aorta nel corso della sistole, ossia durante la contrazione del cuore.

La stenosi aortica genera un sovraccarico di pressione dell’emissione del sangue sul ventricolo, che per compensare e adattarsi a questa situazione, ispessisce le proprie pareti (ipertrofia concentrica), ma comportando tuttavia un incremento di fatica per il cuore.

La stenosi aortica insorge in genere in età matura, tra i 60 e 70 anni, ma l’esordio può essere precedente nei pazienti con valvola bicuspide. L’innalzamento dell’età media della popolazione concorre all’aumento della frequenza della malattia.

In genere la stenosi aortica è dovuta al naturale invecchiamento dell’organismo e alla calcificazione della valvola, delle cuspidi e dell’anello valvolare. La causa può essere anche riconducibile a malformazioni congenite o origini reumatiche.

Una stenosi moderata non si presenta con sintomi particolari. Nei casi più importanti (stenosi aortica severa) invece è possibile si arrivi a un’insufficienza cardiaca con: affanno sotto sforzo, presenza di edemi (ai polmoni o agli arti inferiori), dolore al torace, perdita di coscienza (sincope o pre-sincope con vertigini, sensazione di svenimento o stordimento) in seguito a sforzo. Questi sintomi si possono verificare anche a riposo

DIAGNOSI

L’ecocardiografia è la tecnica diagnostica migliore per effettuare una diagnosi di stenosi aortica. Mediante un esame ecocardiografico con tecnologia Doppler è possibile confermare la diagnosi, valutare la gravità della situazione e le ripercussioni sul cuore.

Grazie all’ecocardiografia è possibile:
– Tracciare l’anatomia valvolare.
– Stimare le calcificazioni valvolari.
– Misurare l’ampiezza di apertura residua della valvola aortica.
– Valutare la funzionalità cuore ed escludere o confermare la presenza di un’ipertrofia delle pareti.

Il Doppler consente invece di:
– Misurare la velocità del sangue a livello dell’orifizio aortico; un dato importante per accertare un’eventuale differenza di pressione tra il ventricolo sinistro e l’aorta.
– Valutare la superficie dell’orifizio valvolare.

SINTESI

La tromboflebite è un’infiammazione di una o più vene associata a un rigonfiamento causato da un coagulo di sangue, colpisce più comunemente le vene delle gambe. I rigonfiamenti associati a coaguli di sangue riguardano più spesso le vene che scorrono nelle gambe, ma in alcuni casi possono interessare le braccia o il collo. Quando la vena interessata è in superficie si parla di tromboflebite superficiale, mentre se è più vicina ai muscoli si tratta di trombosi venosa profonda. La presenza di coaguli nelle vene più profonde aumenta il rischio di formazione di emboli, mentre è raro che una tromboflebite superficiale dia luogo a serie complicazioni.

Periodi di inattività prolungati, come un riposo forzato a letto o molte ore in posizione seduta come può accadere durante un lungo viaggio in aereo, possono causare la tromboflebite. Il rischio di sviluppare questa condizione è particolarmente alto in chi soffre di disturbi che aumentano la probabilità di formazione di coaguli di sangue (in particolare di difetti nella coagulazione del sangue) e in chi rimane a lungo ricoverato in ospedale per un intervento chirurgico o una malattia importanti.

DIAGNOSI

La tromboflebite si manifesta con gonfiori e dolore nella parte interessata, calore e indolenzimento lungo la vena coinvolta e talvolta arrossamenti della cute. Per prevenire la formazione dei coaguli di sangue alla base della tromboflebite è importante mantenersi attivi.
Durante i viaggi aerei è consigliabile alzarsi di tanto in tanto, così come in caso di lunghi viaggi in macchina è consigliabile fare delle soste e camminare un po’.

TRATTAMENTI

Nel caso in cui si sia obbligati a stare seduti a lungo è bene cercare di muovere spesso le gambe, anche premendo la pianta del piede sul pavimento, evitare di indossare capi d’abbigliamento che stringano la vita e bere molta acqua.
Se c’è il rischio di trombosi venosa profonda è utile utilizzare calze contenitive e seguire le indicazioni fornite dal proprio medico.

SINTESI

La trombosi venosa profonda è caratterizzata dalla formazione di un coagulo di sangue (o trombo) in una o più vene localizzate in profondità. In genere a essere coinvolti sono i vasi sanguigni presenti nelle gambe.

Che cos’è la trombosi venosa profonda?
La trombosi venosa profonda è una condizione seria: i coaguli di sangue presenti nelle vene profonde possono infatti staccarsi ed essere trasportati fino ai polmoni, dove bloccano il flusso sanguigno causando la cosiddetta embolia polmonare. Diversi fattori possono aumentare il rischio di sviluppare una trombosi venosa profonda: rimanere seduti o sdraiati a lungo (ad esempio durante un viaggio aereo o un ricovero in ospedale), malattie ereditarie che compromettono la corretta coagulazione del sangue, traumi o interventi chirurgici, il sovrappeso e l’obesità, il fumo, la gravidanza, l’assunzione della pillola anticoncezionale o della terapia ormonale sostituiva, alcune forme di cancro, un arresto cardiaco, essere portatori di pacemaker, cateteri inseriti in una vena e casi di trombosi venosa profonda in famiglia.

DIAGNOSI

La trombosi venosa profonda è causata dalla formazione di un coagulo di sangue in una o più vene localizzate in profondità, vicino ai muscoli. La formazione di questo coagulo può essere associata ad alterazioni della parete vascolare o del flusso del sangue o a un aumento della coagulazione del sangue.
La trombosi venosa profonda è spesso asintomatica; in altri casi può manifestarsi con gonfiore e dolore alla gamba, alla caviglia e al piede, crampi ai polpacci, riscaldamento dell’area interessata e cambiamenti del colore della pelle (che può risultare pallida, arrossata o cianotica).

TRATTAMENTI

Per prevenire la trombosi venosa profonda è bene seguire le indicazioni del proprio medico che possono riguardare l’eventuale assunzione di farmaci o l’adozione di calze contenitive. È necessario evitare di periodi di immobilità prolungata; se si è costretti a stare seduti a lungo è importante alzarsi di tanto in tanto o muovere le gambe, anche premendo i piedi sul pavimento.
Mantenere il peso forma, non fumare e tenere sotto controllo la pressione aiuta a ridurre i rischi.

SINTESI

Con epatopatia alcolica si fa riferimento a diverse condizioni di alterazioni del fegato causate da un consumo eccessivo di alcol. L’epatopatia è un processo degenerativo caratterizzato da tre malattie del fegato legate tra di loro da un crescendo di rischi per il paziente: la steatosi (fegato grasso), l’epatite alcolica, la cirrosi epatica. Il rapporto con l’alcolismo è complesso.

La steatosi provoca un ingrossamento del fegato causato da un accumulo di trigliceridi, spesso senza sintomi per molto tempo. Questa condizione può precedere l’epatite alcolica, un’infiammazione cronica dei tessuti del fegato che porta alla morte (necrosi) e all’alterazione delle funzionalità dell’organo. Il passo successivo è la formazione di cicatrici (fibrosi) tipico della cirrosi epatica, con danni permanenti al fegato.

Il meccanismo che causa l’epatopatia non è ancora del tutto chiaro. È noto che la trasformazione dell’alcol a livello del fegato produce sostanze tossiche che innescano il processo infiammatorio, ma non è da escludere la predisposizione genetica di alcune persone.
Fattori di rischio elevato sono anche l’epatite C, l’obesità e una dieta squilibrata.
I sintomi dell’epatopatia alcolica variano a seconda dello stadio della patologia.
In una prima fase (steatosi) l’alterazione può restare silenziosa, senza sintomi, anche per molti anni. In alcuni casi può manifestarsi con un indolenzimento transitorio nella parte destra e superiore dell’addome.

Nelle fasi avanzate (epatite alcolica e cirrosi) i sintomi sono più rilevanti:
• Febbre
• Dolore addominale
• Perdita di appetito
• Nausea e vomito
• Stanchezza
• Ittero, vale a dire ingiallimento della pelle e della sclera, la parte bianca dell’occhio
• Problemi nervosi, confusione, ansia, agitazione

Gli stadi avanzati dell’epatopatia, in particolare l’epatite alcolica, una condizione critica che ha esiti fatali, si collega a una serie di complicazioni anche gravi, quali:
• Ipertensione
• Varici, con probabili emorragie interne dei vasi dell’esofago
• Leucocitosi neutrofila
• Ascite, vale a dire la ritenzione di liquidi nella cavità addominale con rischio di infezioni
• Encefalopatia epatica, con danni tossici al cervello

Bere alcolici con moderazione (non più di 2-3 bicchieri al giorno di vino) o evitare del tutto il consumo di vino, liquori e birra è l’unica forma di prevenzione dell’epatopatia alcolica. È necessario modificare il proprio stile di vita con un’alimentazione sana, ricca di frutta e verdura, con pesce più volte alla settimana, facendo un’attività fisica regolare e moderata.

DIAGNOSI

Gli esami di riferimento per la diagnosi di fegato grasso o steatosi epatica sono:
• Esami del sangue, con i test per la funzionalità epatica (bilirubina totale, albumina)
• Emocromo
• Ecografia addominale
• Tac (tomografia assiale) o Risonanza Magnetica (RM)
• Biopsia epatica

TRATTAMENTI

La prima azione per chi soffre di disturbi al fegato è smettere di bere. Nel caso si siano consumate grandi quantità di alcol per lungo tempo è bene chiedere un consulto a uno specialista di malattie del fegato, l’epatologo.
Il trattamento dell’epatopatia si attua modificando la propria dieta, aiutando l’organismo a ritrovare l’equilibrio metabolico con un’alimentazione sana. Spesso chi soffre di malattie del fegato è colpito da stati di malnutrizione e carenza di diverse vitamine e minerali che devono essere reintegrati. Il trattamento farmacologico delle fasi più avanzate, in caso di epatite, può prevedere l’uso di corticosteroidi o di pentossifillina.
Nei casi più gravi, le persone che soffrono di epatite alcolica hanno necessità di un trapianto di fegato.

SINTESI

L’ernia della linea alba, detta anche epigastrica, è un’ernia localizzata a livello addominale, più precisamente nella zona compresa tra l’ombelico e lo sterno. Si tratta di una protuberanza formata in genere da una porzione di tessuto adiposo che spinge attraverso l’addome.
In genere questa protrusione non supera le dimensioni di una pallina da golf e solo raramente non è formata da tessuto adiposo, ma da una porzione di intestino o di un altro organo presente nella cavità addominale.
Il problema è più diffuso fra i neonati e, in età adulta, fra gli uomini di età compresa tra i 20 e i 50 anni.
Può essere di due tipi diversi: l’ernia epigastrica riducibile, che può rientrare nella cavità addominale, e l’ernia epigastrica incarcerata (o strangolata), in cui il tessuto è bloccato nella fessura da cui è fuoriuscito. A volte sono presenti più ernie contemporaneamente.
Nella maggior parte dei casi un’ernia epigastrica è causata da un indebolimento o da un difetto congenito della parete addominale o del tessuto connettivo a livello dell’addome. In altri casi può essere dovuta all’intrappolamento di una piccola parte di alcuni organi addominali, inclusi fegato e stomaco, nella parete addominale. Altre possibilità sono sforzi durante i movimenti intestinali o durante il sollevamento di oggetti molto pesanti, accumuli di fluido nella cavità addominale, tosse persistente, obesità e gravidanza.
Spesso le ernie epigastriche non sono associate a sintomi particolari. A volte, però, possono essere dolorose o associate a gonfiore, nausea e vomito, in genere dopo i pasti, ma anche diarrea.

DIAGNOSI

Il medico può diagnosticare facilmente la presenza di un’ernia della linea alba durante una semplice visita, durante la quale potrebbe chiedere al paziente di tossire per visualizzare meglio la protrusione. La diagnosi potrebbe essere confermata o approfondita tramite:
• TAC
• RM
• ecografia
• TC ed ecografia sono particolarmente utili nel caso dei pazienti obesi

TERAPIA

Le ernie epigastriche non guariscono da sole. L’unico modo per eliminarle è un intervento chirurgico, indispensabile quando c’è un’elevata probabilità di incarceramento o di strangolamento dell’ernia. L’intervento consiste nella rimozione dell’ernia e nel rafforzamento della parete addominale e viene in genere eseguito in anestesia locale.
• In genere nei bambini l’intervento viene rimandato fino a che non sono abbastanza grandi da poterlo sopportare, a meno che non subentri un’emergenza;
• Il rischio di recidiva è del 10-20%;
• In caso di dolore o infiammazione il medico può prescrivere l’assunzione di antidolorifici e antinfiammatori;

SINTESI

L’ernia della parete addominale include tutti i casi in cui un viscere intestinale, o una sua parte, fuoriesce dalla sua sede naturale approfittando della debolezza dei muscoli e delle fasce dell’addome o di una “porta” naturale come l’ombelico o altri canali.
Ciò si verifica in seguito a varie cause, più di frequente congenite, presenti fin dalla nascita, o per lo sforzo o per il progressivo invecchiamento e rilassamento dei muscoli che sostengono l’addome. Si manifestano con un rigonfiamento morbido. Generalmente si parla di ernia addominale, anche se più precisamente si indica l’area in cui avviene l’erniazione e quindi si parla di ernia ombelicale, ernia epigastrica, ernia inguinale, ernia crurale, ernia otturatoria.
Con il passare del tempo le dimensioni dell’ernia tendono ad aumentare. L’ernia può essere a livello ombelicale, epigastrico, inguinale, crurale e otturatorio. Si può distinguere poi tra ernie addominali interne ed ernie addominali esterne.
Una complicazione dell’ernia addominale è lo strozzamento. Ciò avviene quando il viscere intestinale che si protende verso l’esterno viene stretto dai legamenti e dai muscoli o dal restringimento del canale in cui si è infilato. In questi casi è necessario un intervento chirurgico per evitare i rischi, anche gravi, di questa condizione come il ristagno di materiale nell’intestino strozzato o la gangrena con la perdita di vitalità dei tessuti compressi.
Fatta eccezione per alcuni casi di regressione spontanea, le ernie possono essere trattate chirurgicamente.

L’ernia addominale può essere del tutto asintomatica, cioè essere visibile senza tuttavia dare alcun disturbo. In genere però causa:
• fastidio o dolore, anche intenso se l’ernia è strozzata. Il fastidio e il dolore possono aumentare in caso di affaticamento, esercizio fisico, lunghe camminate, stando in posizione eretta prolungata oppure sforzi addominali intensi (tosse, starnuti, defecazione); i dolore può irradiarsi alla gamba
• tumefazione
• difficoltà della digestione
• dolore gastrico

Non esistono strategie specifiche per la prevenzione dell’ernia addominale, soprattutto quando questa è di natura congenita. Per ridurre i rischi può essere utile conservare un peso normale, senza perdere o prendere peso in eccesso, quando possibile, evitare sforzi fisici e attività pesanti, mantenere un buon tono muscolare della parete addominale, con esercizi mirati ma non eccessivamente faticosi, può allontanare il rischio.

DIAGNOSI

Per la diagnosi è sufficiente una visita medica e l’osservazione del tipico gonfiore.

TERAPIA

In alcuni casi le ernie addominali si risolvono spontaneamente. Ciò accade per le ernie ombelicali nel neonato che possono regredire spontaneamente dopo i primi anni di vita. Si parla di “ernia riducibile” quando dopo una manovra del medico, spinta verso l’interno, resta nella cavità addominale.
In tutti gli altri casi, le ernie addominali possono essere trattate chirurgicamente per ridurre il rischio di complicazioni pericolose come l’ernia strozzata e l’ernia incarcerata.
Il trattamento chirurgico può essere eseguito con due procedure, entrambe con anestesia generale.
La procedura tradizionale consente di ricollocare il viscere nella sua sede naturale dell’addome e, generalmente, si posiziona una rete di materiale sintetico il cui scopo è quello di rinforzare la parete in cui si era verificato il cedimento dei tessuti.
La seconda soluzione prevede l’utilizzo della chirurgia laparoscopica, un trattamento mini-invasivo, per accedere alla cavità peritoneale e quindi per visualizzare “dall’interno” la zona di cedimento fasciale. Utilizzando 3 o 4 piccole incisioni chirurgiche addominali è possibile introdurre nella cavità addominale telecamera e strumenti chirurgici.

SINTESI

L’ernia ombelicale è una protrusione di una piccola porzione di intestino attraverso i muscoli addominali. Più comune nei bambini, può comparire anche in età adulta, ma si tratta di un disturbo tipicamente innocuo e, in genere, di facile soluzione.

Nel caso in cui dovesse essere ancora presente al compimento del terzo anno di età o se dovesse comparire in età adulta potrebbe essere necessario un intervento chirurgico per evitare le complicazioni che potrebbero insorgere qualora rimanesse “intrappolata”.

In età adulta, invece, l’ernia può essere causata da un’eccessiva pressione all’interno dell’addome, che a sua volta può essere causata dall’obesità, da gravidanze multiple, dalla presenza di asciti o da interventi chirurgici.

Un’ernia addominale può causare la formazione di una protuberanza soffice vicino all’ombelico. A volte la sua presenza può essere rilevata solo mentre il bambino piange, tossisce o si stiracchia, mentre scompare quando il piccolo si calma o si sdraia a pancia in su. In genere nei bambini si tratta di un disturbo indolore, mentre negli adulti può causare fastidi addominali.

DIAGNOSI

Per diagnosticare un’ernia ombelicale è sufficiente una semplice visita medica. A volte il medico può ritenere opportuno prescrivere una radiografia o un’ecografia addominale per valutare il rischio di complicazioni.

TRATTAMENTI

L’ernia ombelicale nei bambini, nella maggior parte dei casi, non richiede nessun trattamento, tende a scomparire da sola entro l’anno-anno e mezzo di vita. Eventualmente il medico può cercare di farla rientrare esercitando una piccola pressione sull’addome, ma non bisogna mai tentare da soli questa soluzione.

Nei bambini l’intervento chirurgico è riservato ai casi in cui l’ernia è dolorosa, supera il centimetro e mezzo di diametro, le sue dimensioni non diminuiscono per 6-12 mesi e se non scompare entro i 3 anni di età rimane intrappolata nella parete addominale o blocca l’intestino.

Negli adulti il trattamento chirurgico è raccomandato. In questo modo si evitano possibili complicazioni, soprattutto quando l’ernia si ingrandisce o diventa dolorosa.
L’intervento consiste in una semplice incisione alla base dell’ombelico attraverso cui il tessuto erniato viene riportato all’interno dell’addome.

SINTESI

L’esofagite è un’infiammazione – a decorso acuto o cronico – dell’esofago, il condotto che trasporta il cibo dalla bocca allo stomaco.
Esistono diversi tipi di esofagite a seconda che sia causata da microbi, allergie, traumi, reflusso di succhi gastrici o ustioni. La più diffusa è quella provocata dal reflusso dei succhi gastrici che, dallo stomaco, tornano nell’esofago, provocando la sensazione di bruciore. I trattamenti dipendono dalla causa e dalla gravità del danno. Se non viene curata, l’esofagite può arrivare a modificare la struttura e la funzionalità dell’esofago.

Le cause che possono far sviluppare l’esofagite sono:
• esofagite da reflusso: si ha quando i succhi gastrici acidi contenuti nello stomaco entrano in contatto con la mucosa esofagea, provocando il bruciore. Questo contatto avviene quando non funziona efficacemente il cardias (l’orifizio che si trova tra lo stomaco e l’esofago e che ha il compito di impedire la risalita del contenuto gastrico nell’esofago stesso). Il reflusso gastroesofageo può comportare lo sviluppo di un’infiammazione cronica ai tessuti dell’esofago.
• esofagite eosinofila: è un’infiammazione a carico dell’esofago scatenata da un’alta concentrazione di globuli bianchi, di solito in risposta a un agente allergizzante. Tra gli alimenti che possono causare l’esofagite eosinofila ci sono latte, uova, soia. Anche allergeni non alimentari possono esserne la causa
• esofagite indotta da farmaci: diversi farmaci assunti per bocca possono causare danni se rimangono a contatto con la mucosa esofagea per un periodo troppo prolungato. Può capitare, ad esempio, quando una pillola viene ingerita con poca o senza acqua
• esofagite infettiva: l’esofagite può anche essere causata da un’infezione batterica, virale, fungina o parassitaria a livello dei tessuti dell’esofago. E’ piuttosto rara e si verifica più spesso in soggetti con scarsa funzionalità del sistema immunitario, come le persone con cancro o con HIV

DIAGNOSI

L’esofagite si manifesta con deglutizione dolorosa e può essere accompagnata da emorragia.
I sintomi dell’esofagite includono:
• difficoltà nella deglutizione
• deglutizione dolorosa
• dolore toracico, soprattutto dietro lo sterno
• nausea
• vomito
• dolore addominale
• tosse
• diminuzione dell’appetito

TRATTAMENTO

La prevenzione dipende dal tipo di esofagite. Per prevenire l’esofagite da reflusso è consigliabile seguire tutti gli accorgimenti che evitano il manifestarsi del reflusso gatroesofageo.

È bene dunque:
• suddividere l’alimentazione giornaliera in 4-5 piccoli pasti anziché in 2-3 abbondanti
• evitare cibi grassi e alcol
• limitare al minimo il consumo di alimenti come cioccolato, menta, caffè e tè

È inoltre sconsigliato indossare cinture o abiti troppo stretti e sdraiarsi prima che siano trascorse 2-3 ore dopo aver mangiato e può essere d’aiuto alzare la testiera del letto di 15-20 cm per avere l’esofago in posizione più alta rispetto allo stomaco.
• nel caso di esofagite eosinofila evitare gli agenti allergizzanti che scatenano la reazione infiammatoria nell’esofago
• per prevenire le esofagiti da farmaco è meglio assumere i farmaci con la giusta quantità di acqua e non sdraiarsi per almeno un’ora dopo aver assunto il farmaco.

SINTESI

L’insufficienza renale cronica è una condizione clinica che si determina quando i reni sono danneggiati ed è irrimediabilmente compromessa la loro capacità funzionale (depurazione, rimozione dei liquidi e produzione di ormoni), indipendentemente dalla malattia che ne è stata la causa.

Tali malattie possono riguardare i reni (glomerulo nefriti, nefriti interstiziali, ecc.), le vie urinarie (calcolosi), oppure i reni possono essere coinvolti in malattie che determinano un danno a tutto l’organismo (ipertensione arteriosa, diabete mellito) oppure, ancora, malattie ereditarie in cui si trasmettono dai genitori ai figli difetti di struttura di alcuni organi (ad esempio rene policistico). Quando i reni perdono quasi completamente la loro capacità di funzionare, l’organismo “s’intossica” perché i prodotti del metabolismo, i sali e l’acqua, si accumulano. Anche gli esami del sangue subiscono alcune modificazioni: aumento di azotemia (urea) e creatinina, riduzione dei bicarbonati (acidosi), aumento del fosforo, riduzione del calcio e riduzione dei globuli rossi (anemia). L’incapacità di mantenere un’adeguata depurazione si esprime in una serie di segni e sintomi chiamata uremia.

I segni e i sintomi della presenza di una possibile insufficienza renale sono: pressione arteriosa instabile, solitamente alta; nausea talvolta accompagnata da vomito; scarso appetito; comparsa di gonfiori soprattutto al volto e alle gambe con conseguente aumento di peso; disturbi del sonno e dell’umore; condizioni più drammatiche come l’edema polmonare (presenza di liquido nei polmoni) e la pericardite (infiammazione della membrana che avvolge il cuore).

DIAGNOSI

Con alcuni semplici esami del sangue (urea, creatinina, glicemia, sodio, potassio, PH, emocromo, calcio, fosforo), l’esame delle urine e l’ecografia delle vie urinarie è di solito facile fare la diagnosi di insufficienza renale. A volte è invece difficile capire la malattia che l’ha causata, e sono necessari molti altri esami. E’ fondamentale non perdere tempo, fare una diagnosi precoce.

TRATTAMENTO

È fondamentale curare la malattia che ha causato l’insufficienza renale (se possibile), e iniziare in ogni caso le cure il più presto possibile. Se si inizia troppo tardi infatti è molto più difficile impedire che la malattia porti alla dialisi. Il trattamento della pressione alta con farmaci specifici, del diabete, del colesterolo alto (e se presente dell’obesità), la riduzione del sale nella dieta, sono gli approcci fondamentali per proteggere i reni. Attenzione particolare deve essere messa all’uso di molti farmaci, che possono peggiorare la funzione renale (quali molti antidolorifici e antibiotici).

Trattamento con emodialisi
Le persone con un grado di insufficienza renale grave hanno bisogno della dialisi come terapia salvavita. Emodialisi vuol dire “depurazione del sangue”, cioè l’eliminazione di quei prodotti che un rene funzionante riesce normalmente a bilanciare e che, in questo caso, vengono accumulati nell’organismo. Con questo processo avviene anche l’eliminazione dell’acqua in eccesso e il ripristino dell’equilibrio elettrolitico che, in presenza di insufficienza renale cronica, risulta alterato.

Come si svolge una seduta di dialisi
Il sangue viene prelevato attraverso un ago di dimensioni più grandi rispetto ad un ago da prelievo e collegato ad una linea (un piccolo tubo di plastica di lunghezza variabile) che chiamiamo arteriosa. Poi, con l’ausilio di una macchina particolare detta rene artificiale, viene fatto passare attraverso un filtro che provvede a depurarlo. Il sangue “pulito” viene poi restituito al paziente attraverso una seconda linea, collegata ad un secondo ago delle stesse dimensioni, che chiamiamo venosa. La dialisi dura di solito quattro ore e viene eseguita tre volte per settimana.

SINTESI

L’esofago di Barrett è una condizione che si verifica quando il tessuto che riveste l’esofago viene sostituito con una nuova mucosa di tipo intestinale, generata dall’esofago stesso. Si tratta di una complicanza della malattia da reflusso gastroesofageo.
Chi soffre di esofago di Barrett ha un rischio maggiore di sviluppare il cancro all’esofago: per questo motivo il monitoraggio di questa condizione si basa su esami periodici volti a individuare la presenza nell’esofago di cellule precancerose.

DIAGNOSI

Molti soggetti affetti da esofago di Barrett non presentano alcun sintomo. Tuttavia, la maggior parte delle volte i sintomi sono sovrapponibili a quelli della malattia da reflusso gastroesofageo, anche se possono presentarsi in forma più accentuata e prolungata:
• bruciore frequente
• difficoltà a deglutire il cibo
• dolore toracico
• dolore addominale, soprattutto nella parte superiore
• tosse secca

TRATTAMENTI

Alleviare i sintomi della malattia da reflusso gastroesofageo può aiutare a diminuire il rischio di ammalarsi di esofago di Barrett. Può quindi essere utile:
• Suddividere l’alimentazione giornaliera in 4-5 piccoli pasti.
• Evitare cibi grassi e alcol e limitare il consumo di alimenti come cioccolato, menta, caffè e tè, che stimolano il reflusso.
• Non indossare cinture o abiti troppo stretti e non sdraiarsi prima che siano trascorse 2-3 ore dopo aver mangiato.

SINTESI

La gastrite è l’infiammazione della parete interna dello stomaco Spesso è associata allo stesso batterio che causa le ulcere (Helicobacter pylori), ma non mancano i casi in cui a scatenarla sono altri fattori, ad esempio alcuni farmaci o l’abuso di alcol. Se non trattata adeguatamente può portare alla formazione di ulcere e a sanguinamenti. Per questo se i sintomi non migliorano è bene rivolgersi al medico.

Può essere acuta, i cui sintomi compaiono all’improvviso, e cronica, che si sviluppa lentamente e perdura nel tempo. Nella maggior parte dei casi non è pericolosa, ma se i sintomi non migliorano rapidamente nonostante i trattamenti o se non vengono curati in modo adeguato la situazione può peggiorare, per esempio con lo sviluppo di ulcere.

In genere la gastrite compare quando la barriera difensiva dello stomaco si indebolisce, permettendo così agli acidi dei succhi gastrici di raggiungere la sua parete e infiammarla. Le cause di questo indebolimento possono essere molte e diverse fra loro: l’invecchiamento fisiologico, l’assunzione regolare di antidolorifici e l’abuso di farmaci antinfiammatori, il consumo eccessivo di alcol, lo stress, reazioni autoimmuni, il reflusso biliare o altre malattie (ad esempio il morbo di Crohn). Inoltre la gastrite può essere associata a infezioni batteriche, in particolare da parte di Helicobacter pylori.

DIAGNOSI

I principali sintomi della gastrite sono dolore, bruciore e crampi allo stomaco, nausea, vomito, una sensazione di pienezza dopo aver mangiato. In alcuni casi, però, il disturbo può essere asintomatico.

TRATTAMENTI

Per evitare la comparsa della gastrite è fondamentale ridurre il più possibile i suoi fattori di rischio, cercando, in particolare, di evitare lo stress e di non eccedere con il consumo di alcolici e con l’assunzione di farmaci, che potrebbero danneggiare la parete dello stomaco.

SINTESI

In genere l’insufficienza epatica si sviluppa lentamente nel corso di anni, ma nella forma acuta – detta anche fulminante – il fegato smette di funzionare improvvisamente nell’arco di pochi giorni. Si tratta di un’emergenza medica che richiede il ricovero ospedaliero. L’insufficienza epatica acuta mette infatti in serio pericolo la vita di chi ne è colpito: fra le sue complicazioni sono inclusi encefalopatia epatica, emorragie interne e insufficienza renale. Per questo è fondamentale rivolgersi subito a un medico in caso di comparsa improvvisa di sintomi come ittero della pelle e agli occhi, dolore alla parte superiore dell’addome, cambiamenti di personalità e alterazioni del normale comportamento. Mentre in alcuni casi è possibile risolvere la situazione con opportuni trattamenti, in altri l’unica soluzione è il trapianto di fegato.

Spesso l’insufficienza epatica acuta non sembra avere una causa precisa. Fra i possibili responsabili ci sono l’assunzione eccessiva di paracetamolo o di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), alcuni medicinali (inclusi antibiotici e anticonvulsivanti) e alcuni fitoterapici (ad esempio la kava e l’efedra), i virus dell’epatite A, B, C, ed E, ed altri virus (come l’Epstein-Barr, il citomegalovirus e l’Herpes simplex), alcune tossine (come quella del fungo Amanita phalloides), l’epatite autoimmune, malattie vascolari (come la sindrome di Budd-Chiari) e malattie metaboliche rare (come la degenerazione epatolenticolare).

Fra i sintomi più comuni dell’insufficienza epatica acuta sono inclusi ingiallimento della pelle e della sclera degli occhi, dolore nella parte alta destra dell’addome, nausea, vomito, un senso di malessere generale, difficoltà di concentrazione, confusione, disorientamento e sonnolenza.

Per ridurre il rischio di insufficienza epatica acuta è importante:
• Seguire le istruzioni riportate nel foglietto illustrativo dei farmaci.
• Consumare alcol con moderazione.
• Evitare comportamenti a rischio come l’uso di sostanze stupefacenti, non utilizzare il profilattico, farsi fare piercing e tatuaggi in condizioni igieniche poco sicure.
• Vaccinarsi contro l’epatite.
• Non mangiare funghi se non si è sicuri che non siano velenosi.
• Evitare di inalare spray come insetticidi, fungicidi o altri prodotti tossici o di farli entrare in contatto con la pelle.
• Mangiare in modo sano, limitando il consumo di grassi.
• Mantenere il peso nella norma.

DIAGNOSI

Fra gli esami che possono essere prescritti per diagnosticare l’insufficienza epatica acuta sono inclusi:
• esami del sangue
• ecografie
• biopsie del fegato

TRATTAMENTI

Per trattare l’insufficienza epatica acuta è necessario il ricovero in ospedale. La terapia può prevedere:
• L’assunzione di farmaci per trattare l’avvelenamento
• Il trapianto di fegato
• L’assunzione di farmaci per ridurre l’edema cerebrale
• Il monitoraggio dell’insorgenza di eventuali infezioni con esami del sangue e delle urine
• L’assunzione di farmaci per ridurre il rischio di emorragie

SINTESI

L’insufficienza epatica cronica è una condizione che si insatura nel corso di molti mesi o addirittura anni, durante i quali il tessuto del fegato si distrugge gradualmente. La conseguenza è il mancato funzionamento dell’organo, sempre associato a fibrosi del fegato.
Le cause più comuni di insufficienza epatica cronica sono l’epatite B, l’epatite C, Il consumo eccessivo e prolungato di alcolici, la cirrosi, l’emocromatosi e la malnutrizione.

Nelle fasi iniziali è difficile riconoscere l’insufficienza epatica cronica; i primi sintomi (nausea, perdita di appetito, affaticamento, diarrea) sono infatti comuni a molte altre condizioni. Con l’aggravarsi della situazione i disturbi diventano però a loro volta più gravi. Tra i principali sono inclusi l’ittero, frequenti emorragie, gonfiori addominali, encefalopatia epatica, sonnolenza e coma.
Il modo migliore per prevenire l’insufficienza epatica cronica è limitare il rischio di contrarre l’epatite o di sviluppare una cirrosi. Il rischio di epatite può essere ridotto grazie al vaccino.
L’alcol deve essere consumato solo con moderazione.

Non bisogna maneggiare materiale sporco di sangue senza un’adeguata protezione.
Quando si decide di farsi fare un piercing o un tatuaggio è necessario assicurarsi che siano rispettate tutte le norme igieniche per evitare la diffusione di infezioni.
È sempre buona norma garantirsi un’alimentazione sana ed equilibrata.

DIAGNOSI

La diagnosi dell’insufficienza epatica cronica prevede una visita medica accurata in cui viene valutata la storia clinica del paziente. Inoltre possono essere prescritti:
• esami del sangue
• ecografie
• colangiografia
• TAC
• biopsie del fegato

TRATTAMENTI

Il primo obiettivo del trattamento dell’insufficienza epatica cronica è mettere in salvo eventuali porzioni del fegato ancora funzionanti. Nel caso in cui ciò non fosse possibile è necessario ricorrere a un trapianto di fegato.

SINTESI

L’insufficienza renale è quella condizione in cui i reni non riescono più a svolgere la propria funzione, che consiste nella regolazione dell’equilibrio idrico e salino, nell’eliminazione di acidi e scorie dall’organismo e nella produzione di ormoni (come l’eritropoietina). Quando l’insufficienza renale si sviluppa rapidamente, da poche ore a pochi giorni, viene definita come “acuta” ed è una condizione potenzialmente letale. Generalmente, se riconosciuta e trattata adeguatamente, può essere reversibile.

Quando invece l’insufficienza renale si sviluppa lentamente (nel corso di mesi o anni), viene definita come cronica. Essa è una condizione irreversibile e i sintomi si manifestano solo tardivamente, quando la malattia è già avanzata. In linea generale, si può rallentare l’evoluzione di questa condizione ma, se essa giunge al suo stadio più avanzato, rende necessario l’utilizzo della dialisi o il trapianto di rene.

L’insufficienza renale acuta può essere determinata da:
• Una diminuzione dell’apporto di sangue necessario ai reni per esplicare le proprie funzioni:
Emorragia
Disidratazione e ustioni
Insufficienza cardiaca
Shock circolatorio in corso di infezione o di reazione allergica
Insufficienza epatica

Danno diretto ai reni:
Trombosi delle vene o delle arterie renali
Infiammazione in corso di malattie autoimmuni (glomerulonefriti e vasculiti)
Infezioni
Alcuni farmaci, fra i quali chemioterapici, antibiotici, farmaci anti-infiammatori ecc.
Mieloma multiplo, una malattia del sangue
Tossici come metalli pesanti e droghe

Ostruzione delle vie urinarie, che impedisce all’urina prodotta dai reni di essere espulsa dall’organismo tramite la minzione:
Ipertrofia prostatica benigna (prostata ingrossata)
Calcolosi renale
Tumori delle vie urinarie
Danni ai nervi che controllano la vescica

L’insufficienza renale cronica, invece, può essere causata da:
Diabete, sia di tipo 1 che 2
Ipertensione arteriosa
Depositi di colesterolo nei vasi renali (aterosclerosi)
Glomerulonefriti e vasculiti Malattia policistica renale e altre malattie genetiche (ad es. Malattia di Fabry e sindrome di Alport)
Ostruzione prolungata del tratto urinario, dovuta a tumori, calcolosi renale o ipertrofia prostatica benigna
Reflusso vescicouretrale, una condizione che causa il reflusso dell’urina all’interno dei reni
Pielonefrite, una infezione cronica del rene
Mieloma multiplo (una malattia del sangue)
Tossicità da farmaci (ad esempio, chemioterapici)

I sintomi dell’insufficienza renale acuta sono:
Una riduzione del volume delle urine, anche se, in alcuni casi, esso potrebbe non subire variazioni.
Ritenzione idrica, che si manifesta con gonfiore di gambe, caviglie o piedi.
Sonnolenza
Fiato corto, se i liquidi si accumulano nei polmoni (edema polmonare)
Affaticamento
Confusione mentale
Convulsioni o coma (nei casi più gravi)

I sintomi dell’insufficienza renale cronica si sviluppano gradualmente nel tempo e possono essere confusi con quelli di altre patologie. Solitamente diventano evidenti solo quando i danni sviluppati sono difficilmente reversibili, e possono comportare:
Nausea e vomito
Perdita di appetito
Affaticamento e debolezza
Difficoltà nel prendere sonno
Riduzione nella quantità di urina prodotta (soprattutto quando la malattia è già avanzata)
Confusione mentale
Contrazioni muscolari involontarie
Gonfiore a piedi e caviglie
Prurito persistente
Fiato corto, se i liquidi si accumulano nei polmoni (edema polmonare)
Ipertensione

DIAGNOSI

La diagnosi dell’insufficienza renale può essere effettuata attraverso:
Esami del sangue e delle urine
Ecografia
Scintigrafia
In alcuni casi, biopsia renale

TRATTAMENTI

In caso di insufficienza renale acuta è imperativo eliminare la causa scatenante (ad esempio disidratazione, infezione, farmaci etc). Collateralmente, è fondamentale riconoscere e trattare le complicanze dell’insufficienza renale che possono diventare pericolose per il paziente.

Fra queste: l’edema polmonare, l’acidosi (una condizione di eccessiva acidità del sangue) e l’iperpotassiemia (un’elevata concentrazione di potassio che può essere tossica per il cuore). A questo scopo è utile:
Bilanciare i fluidi corporei: il medico può raccomandare, a seconda del caso, la somministrazione di liquidi o di farmaci diuretici
Farmaci o utilizzo di soluzioni endovenose per controllare i livelli di potassio e acidi nel sangue
Dialisi temporanea, allo scopo di rimuovere le tossine eventualmente accumulate, quando la terapia medica non è più sufficiente

Nel caso di insufficienza renale cronica è compito del medico rallentare il decorso della malattia stessa, controllando una serie di fattori che si sono dimostrati responsabili di un accelerata progressione. Tra questi:
Controllo e terapia della malattia di base (ad esempio la glomerulonefrite)
Cntrollo della pressione arteriosa
Controllo della glicemia nei pazienti diabetici
Controllo dell’acidosi
Dieta ipoproteica in casi selezionati
Controllo dei farmaci assunti dal paziente, con l’attenzione volta ad evitare i cosiddetti farmaci nefrotossici (come, ad esempio, i farmaci anti infiammatori) che possono far peggiorare la funzione renale.
Prevenzione della nefrotossicità da mezzo di contrasto in occasione di alcune procedure radiologiche

In quest’ambito, il medico è tenuto a riconoscere e trattare altre complicanze dell’insufficienza renale cronica, fra cui:
L’anemia, con la supplementazione di ferro e, eventualmente, l’utilizzo di eritropoietina
La malattia minerale-ossea, tramite il controllo del bilancio calcio-fosforo e dell’acidosi

Nei casi molto gravi di insufficienza renale, in cui la terapia medica non è più sufficiente a garantire l’equilibrio dell’organismo, diventa necessario il ricorso alla dialisi o al trapianto.

SINTESI

Il fegato è tra gli organi più frequentemente colpiti da metastasi originate da tumori maligni che insorgono in tutte le parti del corpo. In genere il coinvolgimento del fegato fa parte di un processo più esteso, che interessa anche altri organi, come polmoni, ossa, encefalo. In queste situazioni, i trattamenti sono generalmente di tipo sistemico (ossia dati per vena o per bocca), per poter garantire una diffusione a tutte le sedi interessate.

Nel caso del cancro colorettale, il fegato può essere l’unica sede coinvolta dalle metastasi e rimanere tale fino alla morte. Su queste considerazioni si è affermata l’indicazione ad effettuare aggressive terapie locali, prima fra tutte la chirurgia resettiva.

Circa il 20% dei pazienti cui viene diagnosticato un tumore colorettale presenta metastasi epatiche alla prima diagnosi, mentre quasi il 50% di quelli operati può svilupparle dopo l’intervento.

Tali percentuali sono condizionate dallo stadio della neoplasia: quanto più è tempestiva e precoce la diagnosi del cancro colorettale, tanto meno è frequente la comparsa di metastasi.

Le metastasi danno segni di sé solo nelle fasi più avanzate con sintomi come debolezza, inappetenza, vaghi dolori nella sede del fegato, alterazioni degli esami del sangue.

DIAGNOSI

La diagnosi viene quasi sempre effettuata mediante esami strumentali (ecografia, TAC, MR e PET) ed ematici (marcatori tumorali come CEA e CA 19-9). Per questo motivo è opportuno effettuare, dopo un intervento per cancro colorettale, controlli periodici per poter effettuare una diagnosi precoce delle metastasi al fegato, qualora si presentino.

Una volta posta la diagnosi è necessario sia valutare più accuratamente la situazione a livello epatico, sia escludere la presenza di metastasi in altre sedi. A tale scopo, gli esami utili sono:
• TAC: eseguita prima e dopo la somministrazione di un mezzo di contrasto in vena, è lo strumento diagnostico più utilizzato per valutare l’eventuale presenza di lesioni epatiche e, più in generale, per stadiare la malattia neoplastica nelle sedi di possibile diffusione a distanza (polmoni, encefalo). E’ inoltre, insieme all’ecografia, lo strumento di norma utilizzato per eseguire biopsie mirate di lesioni focali di natura incerta.
• PET con FDG: è molto valida per la valutazione dell’estensione di malattia, ovvero la presenza di lesioni nel fegato o in altri organi. Questa metodica viene utilizzata sia prima della terapia che dopo il ciclo di cure, per valutare l’effettiva risposta in ogni paziente.
• Risonanza Magnetica (RMN): è la metodica di diagnostica per immagini che ha dimostrato la massima accuratezza nel riconoscimento delle metastasi epatiche e nella capacità di differenziare lesioni epatiche di natura incerta. L’esame non utilizza radiazioni ionizzanti e necessita della somministrazione di un mezzo di contrasto particolarmente adatto per lo studio del fegato, che viene iniettato in vena. Si utilizza in casi selezionati, dopo la TAC, o in alternativa alla stessa, per una più precisa definizione del numero, della sede e della natura delle lesioni, in particolare a fronte di specifici programmi terapeutici.
• Biopsia: si utilizza solo nelle situazioni di forte dubbio diagnostico

TRATTAMENTI

Chirurgia La resezione chirurgica del fegato interessato dalle metastasi si è dimostrata nel tempo la forma di terapia che ottiene i migliori risultati, in quanto la sopravvivenza a cinque anni, nelle maggiori casistiche, varia tra il 40 ed il 60%.
E’ quindi una chirurgia che, se messa in atto da mani esperte, può conseguire ottimi risultati, che però dipendono in parte anche dall’estensione della malattia e da altre caratteristiche quali sede e numero delle metastasi, entità dell’interessamento epatico, precocità della comparsa.

Resezioni epatiche ripetute Il fegato ha la proprietà di rigenerare autonomamente le parti che ne vengono asportate. Se compaiono ulteriori metastasi si possono quindi eseguire resezioni ripetute nel tempo, seguendo i criteri adottati per le resezioni primarie. Inoltre, il risparmio di tessuto sano, possiible grazie alle tecniche di guida ecografica, permette di mantenere inalterate le soluzioni tecniche disponibili all’atto del primo intervento anche per le eventuali successive operazioni.
Nei casi in cui esistano fattori prognostici negativi, a causa dei quali il risultato della resezione chirurgica è più dubbio, è ormai consolidata l’indicazione ad effettuare contemporaneamente altre terapie (chemioterapia, termoablazione, embolizzazione, radioterapia stereotassica).

ChemioterapiaChemioterapia neoadiuvante: Consiste nella somministrazione di più farmaci, con l’intento di ridurre le dimensioni ed il numero delle metastasi, sino a poterle ricondurre alla chirurgia. Oltre a rendere tecnicamente fattibili interventi chirurgici che senza il suo apporto preventivo sarebbero di difficile o impossibile esecuzione, la risposta al trattamento rappresenta un elemento importante per valutare la prognosi.
Chemioterapia adiuvante: Dopo l’intervento chirurgico di resezione delle metastasi epatiche, può essere somministrato un trattamento chemioterapico allo scopo di ridurre il rischio di recidiva della malattia.
Chemioterapia sistemica: Nelle situazioni in cui la chemioterapia non ha la finalità di portare ad operabilità le metastasi (neoadiuvante), oppure non viene ottenuto lo scopo riduttivo di cui si è parlato prima, il trattamento sistemico può comunque consentire un controllo della malattia grazie alla vasta gamma di farmaci disponibili, tra i quali i nuovi farmaci biologici.

Termoablazione Viene utilizzata nelle situazioni in cui la resezione di una o più metastasi possa essere di difficile applicazione, per via di condizioni locali o generali. Può essere attuata sotto la guida di una ecografia, introducendo la sonda attraverso la cute; può anche essere utilizzata durante l’intervento di resezione chirurgica, per completare l’eliminazione di tutte le metastasi.

Embolizzazione In alcuni casi selezionati è possibile procedere, in associazione con altre metodiche terapeutiche, a terapie trans-catetere, eseguite cioè con metodica angiografica, attraverso un sottile cateterino, portato nell’arteria epatica e nei suoi rami più periferici attraverso puntura dell’arteria femorale. In questo modo le sostanze che hanno lo scopo di bloccare l’apporto di sangue vengono iniettate nei rami arteriosi che nutrono la metastasi, cercando di determinare la necrosi del nodulo. In presenza di metastasi da tipi particolari di tumori (detti neuroendocrini) la procedura di embolizzazione (TAE) può costituire un’opzione terapeutica particolarmente importante.

SINTESI

Il morbo di Crohn è caratterizzata da un’infiammazione cronica dell’intestino, che può colpire tutto il tratto gastrointestinale, dalla bocca all’ano. In circa il 90% dei casi, la malattia colpisce maggiormente l’ultima parte dell’intestino tenue (ileo) e il colon.

Le ulcere derivate dall’infiammazione, se non curate, possono portare a creare dei restringimenti intestinali (stenosi) o approfondirsi fino a “bucare” l’intestino e a toccare gli organi circostanti (fistole). Tali complicanze richiedono spesso un trattamento chirurgico, anche se la malattia può tornare nel punto in cui viene eseguita la resezione chirurgica. Nonostante ciò, la maggior parte dei pazienti, con le cure e i controlli necessari, possono ben controllare la patologia e condurre una vita regolare.
Le cause della malattia non sono note. Sembra che una combinazione di fattori, quali la predisposizione genetica, fattori ambientali, fumo di sigaretta, e alterazioni della flora batterica intestinale e della risposta immunitaria, possano scatenare l’infiammazione intestinale. Difatti, le cellule del sistema immunitario “attaccano” in maniera continua l’intestino e contribuisce a perpetuare l’infiammazione. Anche se alcuni geni sembrano essere coinvolti, non è una malattia ereditaria, né genetica.

Il morbo di Crohn può manifestarsi in maniera diversa a seconda delle localizzazioni intestinali. La maggior parte delle volte può manifestarsi con diarrea cronica (cioè che persiste per più di 4 settimane), spesso notturna, associata a dolori e crampi addominali, talvolta con perdite di sangue misto alle feci, e con febbricola che insorge alla sera, oppure con dolori articolari, o con altre manifestazioni non intestinali. Spesso ci può essere un calo di peso importante. A volte, si può manifestare a livello anale con fistole o raccolte di pus (ascessi).

In una buona percentuale dei casi, la malattia non dà sintomi e viene scoperta solo per caso.

DIAGNOSI

Le metodiche per diagnosticare la morbo di Crohn sono:
• La colonscopia con visualizzazione dell’ileo e con biopsia intestinale: serve a valutare lo stato della mucosa intestinale e a valutare se, a livello microscopico, ci sono aspetti tipici dell’infiammazione cronica (alterazioni strutturali del tessuto, infiltrati di globuli bianchi). È essenziale per la diagnosi.
• L’ecografia delle anse intestinali: permette di valutare la parete intestinale in maniera non invasiva, per escludere o diagnosticare complicanze da malattie.
• La risonanza magnetica addominale con mezzo di contrasto che permette di localizzare l’infiammazione, di valutare eventuali complicanze e di valutare l’estensione e l’attività infiammatoria. È una procedura non invasiva che non espone a raggi dannosi.
• L’Entero-TC con mezzo di contrasto, che ha lo stesso valore diagnostico della risonanza, ma dev’essere utilizzata con cautela poiché espone ai raggi X.
• L’esofagogastroduodenoscopia serve a valutare se esiste una localizzazione di malattia a livello della parte alta dell’intestino, soprattutto alla diagnosi.
• L’enteroscopia con videocapsula è una metodica endoscopica non invasiva per diagnosticare lesioni del piccolo intestino che non sono accessibili con la colonscopia. È limitata dalla impossibilità di fare biopsie e dal rischio di ritenzione, in caso di stenosi intestinali.
• L’esplorazione chirurgica sotto anestesia è una metodica chirurgica che va impiegata in casi selezionati di morbo di Crohn perianale. È assieme diagnostica e curativa.

TRATTAMENTI

La terapia per la morbo di Crohn tende a spegnere l’infiammazione intestinale, attraverso l’azione sui meccanismi cellulari e molecolari dell’intestino e del sistema immunitario.

I trattamenti comprendono:
• La mesalazina (5-ASA) che agisce direttamente come anti-infiammatorio sulla mucosa intestinale durante il transito intestinale
• Gli antibiotici intestinali (fluorochinolonici, metronidazolo, rifaximina) che aiutano a equilibrare la flora batterica, possibile corresponsabile dell’infiammazione, oppure a ridurre o eliminare gli ascessi
• L’azatioprina o la 6-mercaptopurina (immunosoppressori) che inducono la morte della gran parte dei globuli bianchi attivati, responsabili dell’infiammazione
• Gli steroidi che hanno una potente azione anti-infiammatoria a livello di tutto l’organismo, sopprimendo la risposta immunitaria e modulandola
• Il metotrexate che agisce, con meccanismi diversi, come immunosoppressore che distrugge buona parte dei globuli bianchi attivati
• I farmaci biologici (infliximab, adalimumab), anticorpi biotecnologici che bloccano selettivamente una delle molecole principali responsabili dell’infiammazione
• Chirurgia che serve a rimuovere le complicanze irreversibili della morbo di Crohn, quando i farmaci non hanno spazio terapeutico
• Farmaci sperimentali che possono avere vari meccanismi d’azione e che solo Centri d’eccellenza selezionati possono somministrare nell’ambito di studi clinici.

SINTESI

Il morbo di Wilson, noto anche come “degenerazione epatolenticolare”, impedisce un corretto smaltimento del rame, un metallo importante per lo sviluppo dei nervi, delle ossa, del collagene e della melanina, ma il cui eccesso deve essere eliminato attraverso la bile per evitare il raggiungimento di livelli pericolosi per l’organismo. Per questo se la malattia non viene trattata in modo opportuno può dare luogo a serie complicazioni, come la cirrosi, l’insufficienza epatica, il cancro al fegato, problemi neurologici, disturbi renali e, nella peggiore delle ipotesi, il decesso.

A causare la malattia è una mutazione genetica che in genere viene ereditata dai genitori, che possono essere portatori senza manifestare la malattia (per questo si parla di “mutazione recessiva”). Questa mutazione altera il funzionamento di una proteina responsabile del trasporto all’esterno del fegato del rame introdotto in eccesso con l’alimentazione. Il metallo, quindi, si accumula inizialmente nel fegato, ma con il tempo esce da quest’organo andando a minacciare la salute di altre parti dell’organismo, in particolare cervello, occhi e reni.

I sintomi del morbo di Wilson vengono spesso confusi con quelli di altri disturbi. A seconda dell’organo danneggiato possono infatti comparire depressione, difficoltà a coordinare i movimenti o a parlare, deglutire o camminare, perdita di bava, predisposizione alle contusioni, fatica, tremori involontari, dolore alle articolazioni, perdita dell’appetito, nausea, rash cutanei, gonfiori a braccia e gambe e ittero.

Chi ha parenti di primo grado affetti da morbo di Wilson potrebbe correre un rischio maggiore di sviluppare il morbo di Wilson. In casi di questo tipo può essere importante chiedere al proprio medico se è il caso di sottoporsi a test genetici per escludere di essere portatori della mutazione che causa la malattia o confermare i sospetti e potersi comportare in modo da prevenire l’insorgenza dei sintomi del morbo.

DIAGNOSI

La diagnosi del morbo di Wilson può prevedere:
• Analisi del sangue e delle urine per monitorare l’attività del fegato e verificare i livelli ematici di rame e di ceruloplasmina, una proteina che trasporta il rame nel sangue e le cui quantità sono in genere ridotte in chi è affetto da questa malattia genetica;
• CT o RM alla testa;
• Visite oculistiche per verificare l’eventuale presenza di depositi di rame nell’occhio o di una particolare forma di cataratta associata al morbo;
• Biopsia epatica;
• Test genetici per verificare la presenza della mutazione associata alla malattia.

TRATTAMENTI

In seguito alla diagnosi il medico può prescrivere l’assunzione di farmaci (in genere agenti chelanti il rame, cioè in grado di legarlo) per ridurre le quantità di rame nell’organismo.

Raggiunto questo obiettivo bisogna evitare un nuovo accumulo del metallo con l’assunzione di molecole come lo zinco acetato, che riduce l’assorbimento del rame dagli alimenti.

In alcuni casi il medico può consigliare di limitare il consumo di cibi ricchi di rame almeno durante il primo anno di terapia. Fra gli alimenti cui prestare attenzione sono inclusi il fegato, crostacei e molluschi, i funghi, la frutta secca e quella essiccata, il cioccolato, l’avocado e la crusca. Meglio, inoltre, fare attenzione ai livelli di rame nell’acqua.

Se il fegato è seriamente compromesso può essere necessario un trapianto.

SINTESI

La pancreatite acuta è un’infiammazione a carico del pancreas che insorge in maniera improvvisa. Il quadro patologico è molto variabile e può presentare forme di pancreatite lieve, risolvibili in pochi giorni, e forme più gravi, che possono anche avere esito fatale.

La pancreatite insorge più frequentemente in seguito a una calcolosi biliare, patologia che colpisce più di frequente la popolazione femminile. Anche l’alcolismo, che coinvolge più maggiormente gli uomini, è un fattore di rischio che può agevolare l’insorgenza della pancreatite.

Anche anomalie anatomiche del pancreas, tumori, aumento dei trigliceridi nel sangue o l’assunzione di alcuni farmaci possono causare la comparsa della malattia.

La pancreatite acuta può anche essere una complicanza di manovre endoscopiche sul pancreas.

La pancreatite acuta si manifesta più frequentemente con un importante dolore addominale che spesso si associa a nausea, vomito e febbre. Nelle forme più lievi di pancreatite i sintomi possono regredire rapidamente, mentre in quelle più gravi possono evolvere in setticemia, shock, insufficienza renale e respiratoria.

DIAGNOSI

La sintomatologia dolorosa avvertita dal paziente permette allo specialista di orientare la diagnosi: è molto comune infatti un dolore alla parte alta dell’addome (a sbarra), che può anche diffondersi al dorso (a cintura). Grazie agli esami del sangue è possibile verificare se i valori di alcuni enzimi (amilasi e lipasi) hanno subito un aumento; il pancreas produce fisiologicamente questi enzimi, ma se il tessuto pancreatico è danneggiato queste sostanze passano nel circolo sanguigno e ne vengono pertanto registrati i valori aumentati nel sangue.

È importante che lo specialista riconosca tempestivamente le forme severe di pancreatite acuta perché in questi casi occorrerà intervenire sul paziente in maniera mirata e immediata.

Altri esami del sangue e la Tac dell’addome, eseguita con mezzo di contrasto, consentono di distinguere in fase di diagnosi le forme lievi da quelle più gravi.

Grazie all’ecografia è possibile verificare la presenza di calcoli biliari, che sono la causa più frequente della pancreatite.

TRATTAMENTO

Sono rari i casi di pancreatite acuta in cui è necessario intervenire chirurgicamente con urgenza. Se a causare la patologia sono i calcoli biliari, il paziente sarà sottoposto a un intervento di colecistectomia (asportazione della colecisti), in genere praticato per via laparoscopica.

Il trattamento per pancreatite acuta prevede inizialmente digiuno e somministrazione endovenosa di liquidi ed elettroliti. Ai pazienti affetti da forme più gravi si prescriveranno anche farmaci ad azione antiproteasica e antibiotici.

Le forme lievi (circa il 90% del totale) si risolvono solitamente in 7-15 giorni, senza lasciare traccia. Le forme più severe invece, che possono necessitare di differenti interventi chirurgici, registrano una mortalità del 10-20%. In questi casi gli interventi chirurgici sono molto difficili e puntano a drenare gli ascessi intraddominali che si formano nel pancreas e il tessuto pancreatico infetto e necrotico.

SINTESI

La pancreatite cronica è un esito di una prolungata infiammazione a carico del pancreas di lieve entità che comporta una lenta e progressiva sostituzione del tessuto pancreatico con tessuto cicatriziale, fibroso e non funzionante.

Questo tipo di pancreatite insorge in genere per un’assunzione cronica di alcol, la patologia però può colpire anche i non bevitori per una predisposizione genetica oppure in seguito a un’ostruzione cronica dello scarico dei succhi pancreatici.

La pancreatite cronica può essere asintomatica in fase iniziale e pertanto non generare alcun disturbo nel paziente. La progressione della malattia può accompagnarsi ai seguenti sintomi:
• Dolore addominale cronico: di lunga durata, che può ripresentarsi intervallandosi a periodi di stasi. La sintomatologia dolorosa si manifesta in genere dopo aver mangiato, ma può presentarsi anche a distanza dai pasti;
• Maldigestione degli alimenti: a causa di una diminuita produzione di succhi digestivi da parte del pancreas i cibi transitano nell’intestino senza essere stati digeriti e assorbiti in maniera corretta. Ne conseguono feci poco formate, talvolta diarroiche. Con il passare del tempo il paziente che soffre di maldigestione tende a dimagrire;
• Diabete: anche l’innalzamento dei valori di glicemia (livello di zuccheri nel sangue) è dovuto a un’insufficiente funzionalità pancreatica; nello specifico si tratta di una diminuita produzione di insulina, deputata all’abbassamento della glicemia, responsabile della comparsa del diabete.

DIAGNOSI

Esami del sangue: utili per verificare la corretta funzionalità del pancreas, sia nella produzione di enzimi digestivi sia per la comparsa di diabete. Il dosaggio della glicemia consente di valutare la presenza di diabete.

Esame delle feci: il cui obiettivo è valutare la funzione digestiva. L’elastasi fecale è un enzima prodotto dal pancreas, il cui valore nelle feci è diminuito nei casi di maldigestione a causa pancreatica.

Ecografia, TAC e/o RMN (risonanza magnetica nucleare): consentono di rilevare alterazioni a carico del pancreas ( come per esempio un’ostruzione del dotto pancreatico o una pseudocisti) e osservare i rapporti tra il pancreas e le strutture circostanti.

Ecoendoscopia e Colangio-Pancreatografia-Retrograda-Endoscopica (ERCP): esami endoscopici tramite i quali è possibile individuare eventuali alterazioni morfologiche dei dotti pancreatici e attuare manovre operative sul pancreas (sfinterotomia, posizionamento di protesi, etc).

TRATTAMENTO

Il trattamento per la pancreatite cronica può far ricorso a:
• Modifiche al regime alimentare, eliminando per esempio l’assunzione di alcolici;
• Assunzione di antidolorifici;
• Preparati a base di enzimi pancreatici;
• Terapia con ipoglicemizzanti per via orale o insulina.

Qualora si manifestassero riacutizzazioni della patologia, con forte sintomatologia dolorosa, il paziente verrà ricoverato in ospedale e sottoposto a digiuno e a somministrazione endovenosa di liquidi.

Le complicanze sono abbastanza frequenti nel corso della malattia e possono essere:
• Compressione del pancreas sul coledoco (ostruzione biliare, ittero) o sul duodeno (ostruzione al passaggio del cibo, vomito);
• Inefficacia degli antidolorifici;
• Comparsa di pseudocisti, raccolte liquide peripancreatiche che possono esercitare una compressione sullo stomaco o su altri organi, con conseguenti dolore addominale o disturbi dell’alimentazione.

La comparsa di complicanze può necessitare di trattamenti invasivi di tipo chirurgico o endoscopico come sfinterotomia o posizionamento di protesi.
La pancreatico-digiuno anastomosi è indicata nel caso in cui vi sia una ostruzione al passaggio dei succhi pancreatici, con dilatazione del dotto pancreatico. Questo intervento migliora lo scarico dei succhi pancreatici.
Gli interventi che possono essere indicati sono l’epatico-digiunostomia, la gastro-digiunostomia o la duodenocefalopancreasectomia questi trattamenti sono in genere risolutivi rispetto alle complicanze, ma non incidono sull’evoluzione della pancreatite cronica.

SINTESI

Le pseudocisti del pancreas sono raccolte di liquido con una parete fibrosa, la cui formazione al di fuori del pancreas può avvenire in seguito a una pregressa pancreatite acuta, in concomitanza a una pancreatite cronica o per un grave trauma addominale. Queste formazioni possono essere in comunicazione con i dotti pancreatici. La somiglianza d’aspetto potrebbe far confondere una pseudocisti con un tumore cistico pancreatico.
Le pseudocisti del pancreas possono essere dovute a un episodio di pancreatite acuta, possono manifestarsi nel corso di una pancreatite cronica o possono insorgere in seguito a un violento trauma all’addome.

Le pseudocisti del pancreas sono spesso asintomatiche. Se vanno a comprimere gli organi circostanti però possono causare:
• Nausea o vomito, se la compressione interessa il duodeno;
• Ittero (colorito giallo della cute e degli occhi), se la pseudocisti va a comprimere il coledoco;
• Dolore di modesta entità avvertito alla parte alta dell’addome.

DIAGNOSI

Una pseudocisti non va confusa con un tumore cistico: si tratta di due patologie differenti e che necessitano di trattamenti molto diversi. Se il paziente è affetto da una pancreatite cronica o ha avuto una pancreatite acuta grave, una formazione liquida pancreatica o peripancreatica è in genere da ricondurre a una pseudocisti. Qualora in un paziente – che non abbia avuto una pregressa malattia pancreatica oppure sia stato affetto da una pancreatite acuta lieve – sia riscontrata una raccolta liquida, questa può essere ricondotta a un tumore cistico del pancreas.

L’ecografia, la TAC, la Risonanza Magnetica e l’ecoendoscopia consentono di rilevare la presenza di anomalie pancreatiche e i rapporti che intercorrono tra il pancreas e le strutture limitrofe.

TRATTAMENTI

In caso di pseudocisti asintomatiche non è necessario intervenire ma è sufficiente un monitoraggio. Se invece sono sintomatiche o voluminose, il paziente verrà sottoposto a un intervento chirurgico o a una procedura endoscopica. La pseudocisto-digiunostomia consiste nel collegare definitivamente la pseudocisti a un’ansa intestinale.

SINTESI

Il reflusso gastroesofageo (MRGE) si verifica quando c’è risalita del contenuto acido nell’esofago. Tra l’esofago e lo stomaco c’è una valvola, lo sfintere esofageo inferiore, che permette il passaggio verso il basso del cibo, bloccandone il ritorno verso l’alto (con l’unica concessione in caso di vomito). La funzione dello sfintere esofageo inferiore è anche quella di impedire che i succhi gastrici presenti nello stomaco risalgano verso l’esofago, o comunque di permetterne un passaggio di modeste quantità. Quando però non si ha una corretta chiusura dello sfintere questa funzione viene meno e gli acidi penetrano nell’esofago irritandone la mucosa interna e scatenando i sintomi propri del cosiddetto reflusso. Questa condizione può divenire patologia quando il passaggio avviene con continuità o quando il contenuto dei succhi gastrici è troppo acido.
Il reflusso può essere definito malattia quando si presenta almeno una volta alla settimana.

Tra le cause di reflusso, si registrano:
• l’alterata funzionalità dello sfintere
• il non corretto funzionamento della peristalsi dell’esofago (movimento di contrazione della muscolatura dell’esofago) e, spesso in associazione, un • rallentato svuotamento gastrico
• alterazioni salivari
• la gravidanza
• l’obesità
• il fumo di sigarette
• la presenza di un’ernia iatale
• la presenza di ansia e stress.
• una dieta alimentare scorretta

I sintomi del reflusso gastroesofageo sono il bruciore all’altezza dell’esofago, retrosternale, con la sensazione spiacevole dell’irradiamento dell’acidità fino alla gola e conseguente rigurgito. Spesso ai disturbi propri del reflusso si associano altri disturbi legati ad altre patologie, come tosse cronica, asma, laringiti o faringiti, raucedine.

DIAGNOSI

La diagnosi del reflusso gastroesofageo viene eseguita attraverso il cosiddetto PPI test che prevede la somministrazione di farmaci specifici antisecretivi acidi per la durata di due settimane. Nel caso in cui i sintomi scompaiano, la diagnosi di reflusso può dirsi confermata.

Altri esami di approfondimento diagnostico, sono:
• l’esofago-gastroduodenoscopia, che permette di visualizzare direttamente esofago stomaco e duodeno attraverso una sonda che contiene una telecamera e una fonte luminosa
• la PH impedenzometria, che viene eseguita quando l’esofago-gastroduodenoscopia non produce risultati e che prevede l’introduzione di un sondino che dal naso viene condotto fino all’esofago e che registra l’eventuale rigurgito di contenuto gastrico nell’esofago stesso nel corso di 24 ore
• la manometria esofagea, che utilizzando un sondino introdotto dal naso e collegato a un computer permette di monitorare i movimenti dell’esofago e dello sfintere esofageo inferiore.

TRATTAMENTI

Il reflusso gastroesofageo può essere curato con tre tipi di farmaci:
• i farmaci procinetici, che agevolano uno svuotamento più veloce dello stomaco
• i protettori della mucosa esofagea
• gli inibitori della pompa protonica o gli antagonisti dei recettori H2, che riducono la secrezione acida gastrica.

Se il trattamento farmacologico non ottiene risultati può essere necessario un intervento chirurgico, eseguito con tecniche mini invasive, con cui si provvede al ripristino della funzionalità dello sfintere gastroesofageo. Ma l’intervento chirurgico non sempre risulta essere risolutivo: in molti casi coloro che si sono sottoposti all’intervento devono proseguire con trattamenti farmacologici, anche se con dosaggi inferiori.

SINTESI

La rettocolite ulcerosa è una malattia caratterizzata da un’infiammazione cronica dell’intestino, che colpisce sempre il retto e può estendersi senza soluzione di continuità a parte o tutto il colon. L’infiammazione provoca delle lesioni ulcerose responsabili dei sintomi intestinali. L’andamento della malattia è caratterizzato dall’alternarsi di episodi acuti seguiti da periodi di remissione clinica. La frequenza degli attacchi può variare fino quasi a susseguirsi senza periodi di benessere.

Le cause della malattia non sono ancora note. L’ipotesi più probabile è che fattori ambientali, quali microorganismi batterici intestinali, in presenza di un assetto genetico predisponente possano scatenare l’attacco da parte del sistema immunitario in cui rimane coinvolto anche l’intestino.
La rettocolite ulcerosa si manifesta con diarrea ematica, anche notturna, associata a dolori e crampi addominali, che spesso si risolvono con l’evacuazione. Spesso è presente urgenza con difficoltà a trattenere lo stimolo defecatorio e una evacuazione di piccolo volume o anche solo di muco e sangue.

Nelle localizzazioni di malattia esclusivamente al retto può essere presente, al posto della diarrea, una stitichezza anche severa. Gli episodi più severi (15%) sono caratterizzati dalla comparsa di febbre e di disidratazione e necessitano di un ricovero urgente in Ospedale per poter praticare la terapia adeguata a base di cortisonici, immunosoppressori, antibiotici e supporto nutrizionale in vena. Solo in casi rari refrattari alla terapia si rende necessario un intervento di colectomia totale. Fino al 35% dei casi sono presenti delle manifestazioni extra-intestinali: artralgie e artriti localizzate sia alla articolazioni periferiche che alla colonna vertebrale; manifestazioni dermatologiche quali dei noduli sottocutanei, arrossati e dolenti o delle lesioni purulente che tendono ad ingrossarsi localizzate spesso agli arti inferiori; episcleriti e uveiti; malattie epatobiliari.

Infine l’infiammazione cronica può provocare nell’arco di anni delle lesioni precancerose con un aumentato rischio di sviluppare un carcinoma intestinale rispetto alla popolazione generale.

DIAGNOSI

Le metodiche per diagnosticare la rettocolite ulcerosa sono:
• La colonscopia con visualizzazione dell’ileo e con biopsie intestinali: serve a valutare lo stato della mucosa intestinale e l’estensione di malattia. Le biopsie tramite l’esame istologico servono a valutare se, a livello microscopico, ci sono aspetti tipici dell’infiammazione cronica (alterazioni strutturali del tessuto, infiltrati di globuli bianchi). È essenziale per la diagnosi.
• Cromoendoscopia o narrow band imaging: sono tecniche aggiuntive in corso di colonscopia che permettono di visualizzare con maggior dettaglio le aree sospette per displasia del colon.
• Calprotectina fecale: indicata come esame di primo livello in pazienti con diarrea e dolori addominale. La sua presenza ad alta concentrazione nelle feci aumenta il sospetto che si tratti di una rettocolite ulcerosa. Indicata anche per monitorare la malattia e la risposta alle terapie in modo non invasivo.
• Rx addominale: nei casi severi dà una indicazione sulla sede e l’estensione di malattia e sull’eventale sviluppo di complicanze.
• L’ecografia delle anse intestinali: permette di valutare la parete intestinale in maniera non invasiva. Indicata come esame di primo livello in pazienti con dolori addominali e diarrea e per monitorare la malattia e la risposta alle terapie in modo non invasivo.

TRATTAMENTI

La terapia per la rettocolite ulcerosa è mirata a spegnere l’infiammazione intestinale, attraverso l’inibizione di processi coinvolti nell’attivazione della cascata infiammatoria e del sistema immunitario.
I trattamenti comprendono:
• La mesalazina (5-ASA) è un farmaco ad azione topica che agisce direttamente come anti-infiammatorio sulla mucosa intestinale.
• Gli steroidi hanno una potente azione anti-infiammatoria a livello di tutto l’organismo, e modulano la risposta immunitaria.
• L’azatioprina o la 6-mercaptopurina sono degli immunosoppressori che inducono la morte della gran parte dei globuli bianchi attivati, responsabili dell’infiammazione.
• Ciclosporina un immunosoppressore che agisce inibendo la funzione dei linfociti, responsabili dell’attivazione del sistema immunitario, e che di solito si usa nei casi di colite severa resistente al cortisone.
• I farmaci biologici (infliximab), anticorpi monoclonali biotecnologici, bloccano selettivamente una delle molecole principali (TNF) responsabili dell’infiammazione.
• Intervento chirurgico di colectomia totale quando i farmaci non hanno spazio terapeutico.
• Farmaci sperimentali che possono avere vari meccanismi d’azione e che solo Centri d’eccellenza selezionati possono somministrare nell’ambito di studi clinici.

SINTESI

La stipsi, o stitichezza, è un’alterazione delle funzioni dell’intestino che provoca una difficoltà a evacuare le feci. In genere si ritiene ci sia stipsi se le evacuazioni intestinali sono meno di tre alla settimana.

Ma non è solo una questione di frequenza: altri sintomi di stitichezza sono la durezza e la forma irregolare delle feci, la sensazione di non avere evacuato del tutto e quella di “blocco” intestinale, con conseguenti dolori e crampi diffusi nell’area addominale.

La stipsi può essere causata da uno scarso apporto di fibre nella dieta osservata o dallo scarso movimento fisico effettuato. Esistono anche altre cause dovute a cambiamenti, anche momentanei, degli stili di vita, come l’invecchiamento, la gravidanza, il cambio di ambiente durante un viaggio.

La stipsi può essere anche conseguenza di altre patologie, come ad esempio il morbo di Parkinson o l’ictus, o può essere causata dall’uso di certi farmaci.

DIAGNOSI

La diagnosi della stipsi viene fatta anzitutto attraverso l’osservazione delle feci.
Una diagnosi attenta deve però basarsi anche su altre indagini più approfondite, come il clisma opaco, la colonscopia, la defecografia, la manometria anorettale e lo studio dei tempi di transito intestinale. In linea di massima, la stipsi può essere di due tipi:
• stipsi da rallentato transito (quando la peristalsi alterata del colon non permette il transito del contenuto colico con la regolare velocità)
• stipsi da ostruita defecazione (quando il problema riguarda la parte finale del retto, quella rettoanale).

TRATTAMENTI

La stipsi può essere trattata attraverso modifiche dello stile di vita e del regime alimentare – prevedendo un maggiore consumo di fibre e di liquidi – o con la prescrizione da parte del medico di farmaci che hanno l’obiettivo di ammorbidire le feci facilitandone l’evacuazione.
Nei casi in cui la stipsi ha origine nervose o muscolari il medico può consigliare una terapia di neuromodulazione sacrale – chiamata anche “stimolazione delle radici sacrali” – che prevede l’installazione sottopelle di un piccolo neurotrasmettitore che invia impulsi elettrici ai nervi deputati al controllo degli sfinteri, così da aiutarli a funzionare in modo corretto.

SINTESI

Per “tumore all’intestino” si intende una crescita di cellule maligne nell’intestino crasso (cieco e colon), ovvero l’ultima parte dell’intestino, o nel retto. Per questo motivo è più frequente che si parli di cancro al colon o di cancro al retto. Esistono anche forme a partenza dall’intestino tenue ma sono molto rare.

Il tumore all’intestino è molto diffuso e in alcuni casi può essere mortale. Se diagnosticato precocemente, però, vi sono alte probabilità di guarigione.

La maggior parte dei tumori del colon sono di origine sporadica, cioè non hanno fattori scatenanti noti, ma il cancro al colon può formarsi a seguito di malattie infiammatorie croniche, quali la colite ulcerosa o il morbo di Crohn. Circa il 25% dei tumori dell’intestino è invece da riferire ad una predisposizione familiare: spesso chi ha parenti che hanno sviluppato questo cancro è più facilmente soggetto a contrarlo, e vi sono particolari patologie genetiche (sindromi) in cui la probabilità di sviluppare un tumore è elevata.

DIAGNOSI

Una diagnosi precoce del tumore dell’intestino (colon) è in grado di aumentare di molto le probabilità di guarigione. Il problema è che questa patologia spesso non mostra sintomi apparenti o evidenzia sintomi – come la mancanza di appetito, l’anemia, una stanchezza diffusa – simili a quelli di altre patologie addominali o intestinali. È necessario dunque sottoporsi a visite specialistiche quando si rientra in una delle categorie a rischio, determinate dall’età, dalla storia medica personale e dalla storia medica familiare.
L’indagine più semplice da effettuare è la ricerca del sangue occulto fecale (SOF), applicabile in tutti i pazienti, consigliata dopo i 45-50 anni. In caso di positività, dopo adeguata correlazione con i dati clinici, andranno effettuati ulteriori accertamenti (colonscopia).

In caso si appartenga ad un gruppo familiare con una particolare predisposizione o si sia affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali è necessario inoltre sottoporsi a una colonscopia a partire dai 50 anni o da una età di 10 anni inferiore all’età del familiare più giovane che abbia sviluppato la malattia. Nelle sindromi genetiche la sorveglianza deve essere più frequente e da età più giovanile. A partire dai 50 anni, infatti, piccole lesioni sono presenti in una persona su cinque. La scoperta di piccoli polipi e di lesioni non comporta la certa presenza di un tumore: si può trattare di situazioni benigne, dovute a stati infiammatori, stitichezza o altri piccoli problemi registrati a livello intestinale.

TERAPIA

Il trattamento dipende dallo stadio di avanzamento della malattia. Se questa è in fase iniziale si procede di solito con un intervento chirurgico, che prevede l’asportazione del tratto di intestino interessato dal tumore e che può rappresentare la soluzione definitiva al problema. L’intervento chirurgico può essere seguito da un periodo di terapia adiuvante, che ha il fine di evitare una recidiva, cioè che le cellule formino, in quella stessa area o a distanza, un’altra lesione tumorale.

Se il tumore è in stato avanzato, invece, è facile che abbia coinvolto altri organi, primo fra tutti il fegato. A causa della sua estensione è facile che non sia consentito un intervento chirurgico curativo. Nei casi in cui sono presenti metastasi a distanza, vengono considerati diversi approcci in base alla fase della malattia: chirurgico, chemioterapico, radioterapico.

SINTESI

Sintesi Il tumore del pancreas è una patologia oncologica che colpisce il pancreas, la ghiandola di 15 centimetri che si trova nell’addome e che ha il compito di produrre i succhi pancreatici – che contengono enzimi e contribuiscono alla digestione –, l’insulina e altri ormoni che hanno la funzione di immagazzinare l’energia prodotta dal consumo degli alimenti.

È la neoplasia con il più alto tasso di mortalità: nel 99% dei casi non concede un periodo di vita superiore ai 5 anni.

DIAGNOSI

Per individuare con certezza un tumore al pancreas possono essere necessari molti esami, a partire da quelli del sangue.
In caso di incertezza il medico, dopo avere effettuato la visita specialistica può disporre l’esecuzione di una TAC, attraverso cui “fotografare” il pancreas e gli organi a esso adiacenti evidenziando eventuali anomalie. Alternative o affiancate alla Tac possono essere un’ecografia e un’ecografia endoscopica per “visualizzare” la ghiandola pancreatica attraverso l’uso di onde sonore. In casi particolari possono essere prescritti anche una risonanza magnetica, una PET, una ERCP (pancreatografia retrograda endoscopica) o una biopsia.

TRATTAMENTI

Il tumore del pancreas può essere trattato radicalmente solo se diagnosticato ai primi stadi e asportato chirurgicamente.

Esistono però altri trattamenti in grado di prolungare l’attesa di vita di chi è colpito da questo tumore. In caso di neoplasie inoperabili è possibile impiegare la radioterapia e la chemioterapia.

Il loro utilizzo viene prescritto dal medico specialista – che può essere il chirurgo, un oncologo, un gastroenterologo e un radioterapista – in base alla posizione del tumore, alla sua diffusione, all’età del paziente.

SINTESI

I reni sono due organi posti simmetricamente nella parte posteriore del dorso, che hanno il compito di filtrare il sangue e le impurità, di aiutare il controllo della pressione sanguigna e di regolare la produzione dei globuli rossi. La causa del tumore al rene è sconosciuta, tuttavia è certo che la neoplasia si origina in seguito all’alterazione nel DNA di alcune cellule renali, che porta a una proliferazione incontrollata delle stesse. L’accumulo delle cellule malate, che crescono e si dividono molto rapidamente, forma il tumore, che con il tempo può arrivare a estendersi ad altri organi, anche distanti dai reni.

I fattori che possono aumentare il rischio di ammalarsi sono:
•  l’età: il rischio cresce con l’aumentare dell’età e il picco di incidenza è intorno ai 60 anni;
• il sesso: gli uomini hanno più probabilità di ammalarsi delle donne;
• il fumo: i fumatori sono più a rischio e il rischio diminuisce se si smette di fumare;
• l’obesità;
• l’ipertensione;
• l’esposizione per motivi professionali a determinate sostanze chimiche, ad esempio l’amianto e il cadmio;
• sottoporsi a dialisi per lunghi periodi di tempo;
• la sindrome di Von Hippel-Lindau, una patologia ereditaria rara;
• il carcinoma papillare ereditario, un tumore renale ereditario.

DIAGNOSI

La diagnosi di tumore renale spesso è accidentale e precedente alla comparsa dei sintomi.

Per stabilire l’eventuale presenza di cancro del rene e la sua estensione, sono utili le seguenti metodiche diagnostiche:
• Ecografia: è lo strumento di diagnostica per immagini che in maniera del tutto non invasiva e con elevata accuratezza oggi è utilizzato in prima battuta per riconoscere una dilatazione delle cavità renali e o degli ureteri e/o per individuare masse solide o cistiche dei reni.
• TAC: utilizza radiazioni ionizzanti ed è la tecnica più efficace per riconoscere anche millimetriche calcificazioni, oltre che, mediante il ricorso all’uso di un mezzo di contrasto, lesioni espansive dei reni. E’ inoltre lo strumento più adatto per guidare biopsie su eventuali lesioni dei reni.
• Risonanza Magnetica: in maniera non invasiva, utilizzando campi magnetici e onde di radiofrequenza, la metodica è utilizzata ad oggi per evidenziare le vie urinarie e i reni, per escludere dilatazioni patologiche dei calici e o degli ureteri e per meglio identificare masse renali altrimenti individuate.
• PET (Tomografia ad Emissione di Positroni): è una metodica diagnostica che utilizza un radiofarmaco che si accumula nelle lesioni neoplastiche caratterizzate da elevato metabolismo. La sua applicazione può essere limitata nelle neoplasie renali perché parte del radiofarmaco viene eliminato proprio per via renale. Risulta più utile per la valutazione di metastasi in sede renale da altre neoplasie.
• Agobiopsia: è una tecnica mini-invasiva per il prelievo di un campione di tessuto che, in casi selezionati, è in grado di confermare attraverso un esame istologico (al microscopio) la presenza o meno di un carcinoma del rene prima dell’intervento di asportazione del tumore, e di fornire informazioni essenziali sul tipo istologico e sull’aggressività biologica del tumore. La biopsia renale non è un esame di routine, ma viene effettuato solo in alcuni casi selezionati.

TRATTAMENTI

L’approccio al trattamento del tumore del rene è di tipo multidisciplinare e può prevedere opzioni terapeutiche differenti.

Chirurgia
La chirurgia è il trattamento principale per il cancro del rene, con particolare riferimento alla chirurgia mini-invasiva laparoscopica.

Le opzioni chirurgiche per il cancro del rene comprendono:
• nefrectomia parziale: il paziente affetto da tumore del rene scoperto in una fase precoce può beneficiare della chirurgia conservativa renale che consente di conservare parte della funzione renale asportando esclusivamente la massa tumorale.
• nefrectomia radicale: i casi di tumore renale avanzato possono richiedere l’asportazione chirurgica completa del rene malato e della ghiandola surrenale adiacente e i linfonodi loco-regionali.
• tecniche chirurgiche mini-invasive: i chirurgia per via laparoscopica (compresa l’ablazione laparoscopica) e robotica.

Terapia medica
Negli ultimi anni sono stati sviluppati una serie di farmaci biologici in grado di inibire recettori molecolari responsabili della proliferazione neoplastica, migliorando significativamente la prognosi di questa malattia. Tali farmaci hanno la capacità di colpire in modo selettivo le cellule tumorali preservando quelle sane, riducendo così la tossicità per il paziente. Inoltre, molti di essi hanno il vantaggio di essere somministrati per via orale.

Trattamento del carcinoma renale metastatico
Nei casi in cui il cancro sia diffuso ad altri organi, l’équipe medica elabora un piano terapeutico specifico. Le opzioni terapeutiche prevedono il trattamento chirurgico, la radioterapia, la terapia medica con farmaci biologici mirati a bloccare la crescita tumorale.

SINTESI

I tumori dello stomaco originano, nella maggior parte dei casi, dalla parte più interna della parete gastrica, la mucosa, e sono, in questo caso, chiamati adenocarcinomi. Meno di frequente possono nascere dagli strati più profondi della parete (e vengono chiamati GIST o sarcomi), dal tessuto linfatico (i cosiddetti linfomi) o, più raramente, da cellule che producono ormoni (carcinoidi).

Crescendo, l’adenocarcinoma, può coinvolgere i linfonodi vicini allo stomaco o invadere altri organi vicini come il pancreas, il fegato, la milza e il colon o si può estendere fino al peritoneo, diventando spesso inoperabile. Inoltre, attraverso il sangue la malattia può diffondersi in organi distanti, come polmone e fegato.

I principali fattori di rischio per lo sviluppo del tumore gastrico sono molti e vanno dallo scarso consumo di frutta e vegetali all’adozione di una dieta troppo ricca di cibi salati e affumicati; dal fumo all’infiammazione cronica dello stomaco; da una pregressa resezione gastrica per ulcera a una storia familiare di cancro dello stomaco.

I sintomi di un tumore allo stomaco sono legati alla sede in cui si è sviluppato, con maggiore evidenza quando interessa parti dove lo stomaco è più ristretto, come al suo ingresso e alla sua fine. In fase più avanzata si possono registrare nausea, vomito, dolore gastrico, dimagramento e stanchezza diffusa

DIAGNOSI

Esami utili per la diagnosi di tumore dello stomaco sono:
Esofago-gastro-duodenoscopia (EGDS): è l’indagine diagnostica più importante. Permette l’esplorazione visiva della prima parte del tubo digerente attraverso l’utilizzo di un sottile tubo (endoscopio), introdotto attraverso la bocca, che illumina e ingrandisce le porzioni di viscere esplorate, attraverso il quale può essere anche effettuato il prelievo di tessuti (biopsia) che consenta la diagnosi istologica. È l’indagine diagnostica più importante.
Esame istologico: definisce il sottotipo di tumore nel tessuto prelevato e consente di porre le appropriate indicazioni terapeutiche.
RX del tubo digerente: metodica di utilizzo secondario, poco utile nell’identificare piccole lesioni, che non consente la diagnosi istologica.
Ecoendoscopia: consente di valutare la profondità dell’invasione tumorale nella parete gastrica e di valutare lo stato dei linfonodi adiacenti allo stomaco.
Esame radiologico computerizzato (TAC): fornisce immagini assiali del corpo umano con possibilità di ricostruzioni secondo tutti i piani dello spazio e anche tridimensionali.

TRATTAMENTI

L’asportazione chirurgica di parte o di tutto lo stomaco rimane l’opzione terapeutica principale. L’entità dell’asportazione chirurgica è in funzione dell’estensione della malattia. Il tumore allo stomaco può eventualmente essere ridotto attraverso l’attuazione di chemioterapia preoperatoria. Dopo l’intervento può essere, in alcuni casi, indicato un trattamento complementare farmacologico o, più raramente, radioterapico. In caso di metastasi avanzata il trattamento è di tipo chemioterapico.

SINTESI

Il tratto gastro-intestinale rappresenta una sede in cui frequentemente si localizzano i tumori neuroendocrini gastro-entero-pancreatici, in particolare il piccolo intestino, seguito dallo stomaco, e dal colon retto. I tumori neuroendocrini sono tumori a lenta crescita e solitamente poco aggressivi, anche se in alcuni casi possono invece crescere rapidamente e comportarsi in modo più maligno.

I fattori di rischio sono rappresentati da:
•  alcune condizioni che impediscono allo stomaco di secernere la giusta quantità di acido
• il fumo di sigaretta

Solitamente i tumori carcinoidi gastrointestinali in una fase iniziale non causano sintomi. Alcuni pazienti possono però manifestare sintomi legati all’eccessiva produzione di un ormone chiamato serotonina, che può causare la cosiddetta “sindrome da carcinoide”:
vampate di calore al volto (flushing)
diarrea
dolore addominale (causato da ostruzione dell’intestino)
difficoltà a respirare e sibili (crisi asmatica)
debolezza e affaticamento
perdita di peso
tachicardia
danni alle valvole del cuore

I pazienti affetti da sindrome da carcinoide, quando vengono sottoposti a procedure chirurgiche o anestesiologiche o a trattamento chemioterapico, possono sviluppare la cosiddetta “crisi da carcinoide”, una situazione potenzialmente fatale causata dall’improvvisa liberazione di grandi quantità di serotonina nel circolo sanguigno.

DIAGNOSI

Un tumore carcinoide gastrointestinale spesso viene scoperto per caso, durante l’esecuzione di accertamenti diagnostici per altri motivi. Altre volte viene sospettato in base ai sintomi della sindrome da carcinoide: esami del sangue e delle urine possono in questi casi rivelare aumentati livelli di ormoni o altre sostanze prodotte dal tumore, in particolare di cromogranina A (una proteina prodotta dai tumori endocrini in genere) e di acido 5idrossindolacetico (5IHAA, un derivato della serotonina che si ritrova nelle urine).

Per confermare il sospetto diagnostico, individuare l’esatta localizzazione del tumore e le sue dimensioni, verificare se si è già diffuso ad altri organi e se è chirurgicamente asportabile, vengono generalmente eseguiti i seguenti esami strumentali:
  • Tomografia Computerizzata (TC) dell’addome con tecnica trifasica: vengono acquisite immagini durante 3 differenti fasi di passaggio di mezzo di contrasto attraverso il fegato, per avere informazioni più accurate sulla eventuale diffusione del tumore ai linfonodi o al fegato
• Risonanza magnetica (RM)
• PET-TC (Tomografia ad Emissione di Positroni con fusione TC): è attualmente una delle indagini più importanti per la diagnosi e la stadiazione dei tumori neuroendocrini, grazie allo sviluppo di radiofarmaci specifici per questo tipo di neoplasie.
• La PET-TC con FGD utilizza un radiofarmaco che si accumula nelle lesioni neoplastiche caratterizzate da elevato metabolismo degli -zuccheri e quindi fornisce informazioni circa l’aggressività delle neoplasie.
• La PET-TC con Dopamina utilizza un precursore di alcune sostanze secrete dalle neoplasie neuroendocrine e pertanto permette l’identificazione di questi tumori per via del loro peculiare metabolismo.
• La PET-TC con Gallio-DOTA-peptide utilizza un radiofarmaco in grado di legarsi ai recettori per la somatostatina molto spesso presenti in abbondanza sulla superficie dei tumori neuroendocrini. Lo studio recettoriale di queste neoplasie non soltanto ne permette l’identificazione ma anche la selezione per alcuni tipi di terapie che utilizzano radiofarmaci analoghi della somatostatina.
• Scintigrafia recettoriale: è in grado di individuare i tumori neuroendocrini grazie alla presenza dei recettori per la somatostatina. Attualmente è un’indagine obsoleta nei centri ove sia disponibile la PET con Gallio-DOTA.
• Metodiche di endoscopia: gastroscopia, econendoscopia e colonscopia possono essere utili per visualizzare carcinoidi localizzati a livello di stomaco, duodeno, retto o colon.

Si può arrivare ad una diagnosi definitiva asportando direttamente il tumore o, più frequentemente, effettuando delle biopsie (prelievi di tessuto da esaminare poi al microscopio) endoscopiche o mediante la tecnica dell’agobiopsia guidata da TC o da ecografia.

TRATTAMENTO

Esistono diverse possibilità terapeutiche per i pazienti affetti da tumore neuroendocrino gastrointestinale, che comprendono chirurgia, terapie loco-regionali, bioterapie, chemioterapia, trattamenti con radio farmaci (radiorecettoriali).

Chirurgia
L’asportazione chirurgica del tumore rappresenta sempre il trattamento di prima scelta. I tumori localizzati (non estesi ad altri organi) possono essere asportati unitamente ad una porzione di tessuto sano circostante. In base alla localizzazione del tumore ed alla sua estensione, può essere necessario asportare porzioni più o meno estese dell’organo coinvolto e dei linfonodi circostanti. Questi interventi possono essere eseguiti talora per via laparoscopica: l’approccio mini-invasivo è in grado di ridurre il dolore e la durata della degenza postoperatoria.
In alcuni casi non è possibile ottenere l’asportazione completa del tumore: può essere comunque indicata una rimozione parziale (debulking), ad esempio allo scopo di migliorare la sintomatologia.

Endoscopia
In caso di tumore neuroendocrino ben differenziato di piccole dimensioni che sporge all’interno della cavità dello stomaco o dell’intestino, a volte l’asportazione può essere effettuata per via endoscopica.

Terapie loco-regionali a livello epatico.
Quando i tumori neuroendocrini gastrointestinali sono diffusi (metastatici) anche al fegato, è possibile eseguire (in alternativa o in associazione all’asportazione chirurgica) trattamenti locali quali embolizzazione o radiofrequenza. L’embolizzazione consiste nell’iniettare (utilizzando sottili cateteri) delle particelle all’interno dei vasi sanguigni del fegato, per bloccare il flusso sanguigno alla porzione di fegato dove è localizzato il tumore, togliendo così ad esso ossigeno e nutrienti. La radiofrequenza consiste nell’introdurre all’interno del fegato, sotto guida ecografica, sonde che generano calore e distruggono le metastasi.

Bioterapie
I pazienti in cui non si può rimuovere chirurgicamente il tumore possono essere trattati con iniezioni mensili di un ormone sintetico analogo della somatostatina (octreotide o lanreotide). Questa terapia è in grado di migliorare i sintomi e di rallentare la crescita del tumore. Un’alternativa è rappresentata dall’utilizzo di interferone, una sostanza in grado di aumentare la risposta immunitaria. Più recentemente hanno inoltre dimostrato la loro utilità due nuovi farmaci, il sunitinib e l’everolimus, in grado di interferire selettivamente sui meccanismi che consentono al tumore di crescere e dare metastasi.

Chemioterapia
E’ solitamente riservata ai casi in cui tutte le alternative terapeutiche sopra elencate sono state attuate/valutate e hanno dimostrato la loro inefficacia.

Terapia radiometabolica
L’elevata densità di recettori per la somatostatina sulla superficie dei tumori neuroendocrini costituisce il presupposto per la terapia radiorecettoriale. Si utilizza un farmaco analogo della somatostatina (dotato quindi di affinità per i recettori presenti in abbondanza sulle cellule tumorali) marcato da una porzione radioattiva (Ittrio o Lutezio). Il radiofarmaco che viene iniettato per via endovenosa è dunque in grado di riconoscere il proprio “bersaglio” grazie al legame dell’analogo della somatostatina ai recettori presenti sulle neoplasie. La porzione radioattiva agisce dunque in modo mirato, nei confronti cioè di quelle cellule tumorali su cui il radiofarmaco si è legato.

SINTESI

I tumori cistici del pancreas sono tumori rari, in genere benigni ma che possono andare incontro a una degenerazione maligna, dal contenuto liquido che possono raggiungere anche dimensioni importanti; colpiscono più comunemente il sesso femminile. In genere benigni, con il passare del tempo possono subire una degenerazione maligna. I tumori cistici del pancreas sono formazioni di cisti plurime a contatto tra loro e possono essere multipli. I tumori cistici del pancreas si distinguono in: cistoadenomi sierosi, cistoadenomi mucinosi, neoplasie intraduttali papillari-mucinose (benigni) e cistoadenocarcinomi (maligni).

I tumori cistici del pancreas sono in genere asintomatici e vengono rilevati casualmente nel corso di ecografie o TAC cui il paziente si è sottoposto per altre motivazioni. Le formazioni di grandi dimensioni in particolare si caratterizzano per i seguenti sintomi:
• Dolore di modesta entità avvertito alla parte alta dell’addome;
• Nausea o vomito, se la cisti esercita una compressione sullo stomaco o sul duodeno;
• Ittero (colore giallo della cute e degli occhi), se la cisti va a comprimere il coledoco;
• Episodi di pancreatite acuta che si manifestano con un dolore violento improvviso. In questi casi la pancreatite è dovuta alla presenza di muco molto denso, prodotto da alcuni tumori cistici, (neoplasia intraduttale papillare-mucinosa) che ostruisce i dotti pancreatici.

DIAGNOSI

Un tumore cistico non va confuso con una pseudocisti: si tratta di due patologie differenti e che necessitano di trattamenti molto diversi. Se il paziente è affetto da una pancreatite cronica o ha avuto una pancreatite acuta grave, una formazione liquida pancreatica o peripancreatica è in genere da ricondurre a una pseudocisti. Qualora in un paziente – che non abbia avuto una pregressa malattia pancreatica oppure sia stato affetto da una pancreatite acuta lieve – sia riscontrata una raccolta liquida, questa può essere ricondotta a un tumore cistico del pancreas.

L’ecografia, la TAC e/o la Risonanza Magnetica possono fornire informazioni utili qualora si sospetti un tumore cistico.
L’ecoendoscopia in particolare consente di effettuare una valutazione delle pareti della cisti, di rilevare la presenza di vegetazioni interne e di prelevare cellule o liquido della cisti, da sottoporre a esami più dettagliati.

TERAPIA

In alcuni casi può rendersi necessaria l’asportazione del tumore sia per evitarne una degenerazione maligna sia per proteggere il paziente dai disturbi che il tumore potrebbe generare.
In caso di tumori sierosi, piccoli tumori mucinosi dei dotti secondari o qualora i pazienti siano molto anziani) potrebbe essere sufficiente un monitoraggio della cisti con periodici esami strumentali.
Gli interventi che possono essere indicati sono la duodenocefalopancreasectomia, la pancreasectomia distale, la pancreasectomia totale (quando il tumore cresce lungo il dotto pancreatico oppure è multifocale) e la pancreasectomia intermedia.

SINTESI

Il tumore del fegato (epatocarcinoma), proliferazione non controllata delle cellulle epatiche (del fegato), colpisce la ghiandola più grande del corpo umano che svolge funzioni importanti quali la rimozione di sostanze tossiche dal corpo, la sintesi delle proteine contenute nel sangue e la produzione della bile e di enzimi importanti per la digestione.
Il tumore del fegato può essere primitivo, quando “nasce” all’interno del fegato (il più frequente è l’epatocarcinoma) o, più spesso, secondario, quando deriva da un tumore che si è sviluppato in un altro organo e si è esteso al fegato (metastasi epatica).
Più raramente un tumore può svilupparsi nei dotti epatici, condotti che portano la bile dal fegato alla colecisti (colangiocarcinoma).

DIAGNOSI

I tumori primitivi del fegato colpiscono in Italia 11 persone ogni 100.000 abitanti. Alcuni pazienti, come chi ha una cirrosi di lunga data causata dall’epatite B o C o da un consumo eccessivo di alcool, sono maggior rischio di sviluppare l’epatocarcinoma. È quindi importante che svolgano controlli periodici con un epatologo (che valuterà gli esami da eseguire).
I sintomi del tumore al fegato si presentano generalmente in fase avanzata e sono estremamaente aspecifici (ovvero possono essere riscontrati anche in altre condizioni, neoplastiche o no): stanchezza, perdita di peso, colorazione gialla della cute, dolore al fianco destro.

In seguito alla visita medica, nel caso in cui il medico riscontri la presenza di sintomi che possono far sospettare la presenza di un tumore al fegato, possono essere prescritti diversi esami:
• Ecografia addominale
• Tomografia computerizzata
• Risonanza Magnetica
• Colangiopancreatografia retrograda endoscopica (ERCP) ed ecoendoscopia
• Colangiografia percutanea trans epatica (PTC)
• Biopsia epatica
• Elastografia epatica (FibroScan)

Gli obiettivi sono due: determinare lo stadio del tumore (ovvero la sua estensione nel corpo) e le sue caratteristiche (ovvero capire se è primitivo o una metastasi, con le opportune indagini radiologiche e, eventualmente, con un piccolo prelievo). Solo una volta determinato lo stadio e le caratteristiche del tumore sarà possibile pianificare la terapia. È importante sapere che non tutte le indagini sono adatte in ogni caso: gli accertamenti da eseguire vanno discussi per ogni singolo paziente.

TRATTAMENTI

Il trattamento dell’epatocarcinoma è complesso e richiede l’intervento di più specialisti. La tipologia di trattamento utilizzato dipende dalla quantità e dal volume delle masse tumorali presenti, dalla loro localizzazione, dalla presenza o meno di metastasi (quando il tumore si diffonde anche agli organi vicini).
Essenziale è anche valutare le condizioni generali e lo stato di salute del paziente, soprattutto quando si tratta di adottare un intervento di tipo chirurgico.

La classificazione dell’epatocarcinoma è la seguente:
• tumore localizzato e resecabile: si può intervenire chirurgicamente asportando la parte di fegato interessata dal tumore. In casi estremi (selezionati con estrema cura) si può prevedere l’asportazione totale dell’organo, procedendo con un trapianto;
• tumore localizzato non resecabile: la non resecabilità può dipendere dall’estensione del tumore; talora le condizioni generali del paziente (e del suo fegato) che non consentono di tollerare un intervento. In questo caso si utilizzano differenti approcci: termoablazione (cellule distrutte utlizzando il calore), iniezione percutanea di etanolo (alcol che uccide le cellule tumorali), criochirurgia (cellule distrutte utilizzando il freddo), infusione di chemioterapici nell’arteria epatica, radioembolizzazione (infusione nell’arteria epatica di sostanze radioattive che colpiscono le cellule tumorali) e trapianto. La tecnica da utilizzare andrà valutata in base alla sede e alle dimensioni del tumore
• tumore in stato avanzato: in presenza di uno stadio avanzato, la terapia dipende dalle condizioni generali del paziente. La chemioterapia non è utilizzata frequentemente nell’epatocarcinoma. Qualora il paziente (e il fegato) siano in buone condizioni generali è possibile assumere della terapia “mirata” (sotto forma di pastiglie).
• nei pazienti con una cirrosi non compensata o in condizioni generali compomesse le terapie si limitano a tenere sotto controllo i sintomi più fastidiosi per il paziente;
• ricadute: si possono presentare entro due anni dalla scoperta del tumore primario e vengono trattate a seconda delle loro caratteristiche.

Nel caso del colangiocarcinoma o delle metastasi epatiche da altri tumori, la diagnosi e la terapia possono essere differenti e andranno stabilite in ogni singolo caso con lo specialista.

[ "Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso" ]
Nelson Mandela